Chi compie attentati solitari ha livelli di psicopatologia più elevata rispetto a chi si muove in gruppo. E ciò mette in risalto l'abilità dei reclutatori, in grado di dissuadere o allontanare i reclutati percepiti come inaffidabili, instabili o confusi

Quando il Ministro degli Interni bavarese ha dichiarato che Paul H., l’uomo che ieri ha ucciso una persona e ne ha ferite tre gridando Allah Akbar, è affetto da disturbi mentali, ci siamo sentiti sollevati. Paradossalmente, stabilire che l’Isis è sostenuta da un manipolo di pazzi ci renderebbe comprensibile il progetto di al Baghdadi e ci metterebbe più tranquilli: avremmo una spiegazione per un comportamento altrimenti inspiegabile.

Anche se a caldo è difficile sciogliere i dubbi su quello che è successo, le prime indagini ci dicono che si è trattato del gesto di un emulatore. E una delle poche certezze di chi li studia, é che i terroristi sono la categoria criminale con livelli più bassi di psicopatologia.

Per comprendere come ragionano, un buon punto di partenza potrebbe essere considerare che i loro percorsi della mente non sono esclusivi di chi soffre di un disturbo mentale. Il terrorista è mosso da rabbia, disperazione.

È determinato e dotato perfino di razionalità: odia quelli da cui si sente attaccato, uccide chi cerca di colpirlo. Trova una giustificazione morale ai suoi comportamenti e non si cura delle conseguenze delle azioni, disumanizza le future vittime, sposta all’esterno le responsabilità dicendosi: “È colpa degli altri se mi comporto così”. La sua psicologia, peraltro, va letta in una logica di gruppo perché legittimata dal contesto.

Nonostante le motivazioni di chi vive nelle terre della Mezzaluna siano differenti da quelle dei foreign fighters, alcuni aspetti della personalità possono avere un peso decisivo in chi sceglie la strada dell'Isis.

Una particolare inclinazione alla violenza, per esempio. Anche se l'equazione follia-violenza é un falso mito che può diventare realtà quando chi è affetto da disturbi mentali fa uso di sostanze (come nel caso di Paul H.). Oppure un narcisismo insano: la ricerca di grandezza e soddisfazione di bisogni, a tempo zero e a basso costo, da parte di chi si identifica in una causa che restituisce significato esistenziale. O l’utilizzo del meccanismo di difesa della proiezione: il jihadista spesso odia la rappresentazione del mondo da cui si sente escluso, proietta sull’Occidente le parti di se che non riesce ad accettare e riconoscere.

Nel caso di chi sposa l'islamismo radicale, invece, regge meno la spiegazione dei comportamenti attraverso il paradigma della psicopatia: una chiave di lettura molto utilizzata per interpretare gesti apparentemente incomprensibili e crudeli. Lo psicopatico, come può esserlo un sicario, è mosso da egocentrismo, assenza di rimorso e di empatia. Nel radicalismo, invece, lo spazio per l’egocentrismo è minimo, i legami sono stretti e duraturi, le persone devono impegnarsi ed essere leali.

La continua oscillazione tra negazione ed esasperazione del rapporto tra follia e terrorismo ha consolidato alcuni luoghi comuni. Il primo riguarda l’idea che la relazione sia da negare a tutti i costi: il dato certo è che non ci sono specifici disturbi che orientano la scelta, non il fatto che il legame tra psicopatologia e terrorismo non ci sia. Su questo potrebbe incidere il timore che accettare la relazione porterebbe, implicitamente, a giustificare i comportamenti criminali.

Chiarirne l’esistenza o meno, invece, aiuterebbe a capire meglio i meccanismi di pensiero di chi imbocca la strada del terrore, visto che psicopatologia e incapacità di autodeterminarsi non sono necessariamente correlate.

Il secondo luogo comune è legato al fatto di non dare il giusto peso alle differenze di ruolo: le caratteristiche psicologiche di al Baghdadi sono diverse da quelle di Jihadi John, così come quelle di un killer di mafia sono differenti da quelle di un boss.

Il terzo riguarda l’approccio dicotomico: o i terroristi sono pazzi oppure no, invece i disturbi mentali si muovono lungo un continuum e gli aspetti patologici della personalità spesso non sono riconosciuti come malattia.

L’attentatore di Grafing potrebbe tutt'al più rientrare nella categoria dei cani sciolti ispirati in qualche modo da ragioni jihadiste, anche se i riscontri sembrano escludere legami con gruppi terroristici e le ragioni del suo gesto saranno, forse, spiegate da una perizia psichiatrica.

L’unico punto su cui sembra esserci un certo accordo tra le ricerche, comunque, è proprio la considerazione che chi compie attentati solitari ha livelli di psicopatologia più elevata rispetto a chi si muove in gruppo. Questo dato, quindi, metterebbe in risalto l'ennesima abilità dei reclutatori, quella di riuscire a fare una sorta di screening dissuadendo o allontanando i reclutati percepiti come inaffidabili, instabili o confusi.

* Corrado De Rosa è uno psichiatra