All'evento dedicato ai fumetti e all'animazione da 120mila visitatori, i ragazzi si divertono, imparano e pensano al futuro. In una città troppo spesso associata solo a camorra e degrado (Foto di Gianni Cipriano)
La ragazza giapponese seduta in metropolitana affianco a me ha un vantaggio: con i suoi jeans e il suo zainetto sobrio assomiglia a un manga più di tutti i cosplayer che stanno salendo, di fermata in fermata. La meta è la stessa dello stadio San Paolo. E uguali sono le misure adottate dall’azienda di trasporti cittadina, come per le partite del
Napoli: incremento delle corse di metropolitana, e convogli speciali all’ora di chiusura. Stiamo andando al
Comicon 2016. A mano a mano che salgono Sailor Moon e Lady Oscar un vecchietto prende coscienza di ciò che sta accadendo: «Ma è cominciato il comix?». E i ragazzi sorridono, gli dicono orari e date, non lo correggono.
Si chiami come si chiami, la città sa cos’è e lo riconosce: all’incrocio di viale Kennedy le macchine fanno una fila chilometrica per lasciare attraversare lo sciame di amanti della nona arte. Nessuno pigia sul clacson, nessuno si meraviglia: la città di
Giambattista Vico e di
Sarri lo sa: in questi giorni c’è il Comicon, è cosa buona e giusta, agevolare la riuscita, non protestare.
Centomila biglietti venduti, sold out da settimane, ciascun biglietto 10 euro, ciascun ingresso una persona che legge manga, o fumetto popolare, o raffinatissime grafic novel, che abbia quindici anni o sessantacinque, che abbia cominciato con “Linus” e “Alter Alter” o con “The walking dead”, che ami travestirsi da Conan il barbaro o arrivi a uno dei 12 varchi d’accesso in giacca e cravatta, come il signore bon ton davanti a me, che si trascina da chi sa dove un trolley rigido completamente rivestito di vignette di “Topolino”.
“Topolino”, che adesso viene disegnato quasi esclusivamente in Italia, dopo che la Disney ha deciso di dedicarsi sostanzialmente all’animazione, eppure qualche grande vecchio esiste ancora ed è lì, all’angolo autografi che disegna le dedicasse, cioè piccoli fumetti- firma: i fan si accalcano, è Don Rosa, un pezzo grosso, grossissimo. Accanto allo spazio autori, dove gli stremati fumettisti si riposano dalle fatiche della giornata, prendono appuntamento con la stampa, parlano con un editore della prossima grafic, c’è un prato con due biliardini. Alino&Alina, anime storiche della manifestazione, mi spiegano che stanno pensando di organizzare un torneo assieme ad Alessio Spataro, sulle tracce del suo ultimo libro fumetto pubblicato da Bao: la ricostruzione della storia paradigmatica dell’inventore del biliardino sullo sfondo della guerra civile spagnola.
[[ge:rep-locali:espresso:285199842]]Perché è questa la molteplice anima del Comicon: saper interfacciare il divertimento puro con l’impegno, il merchandising con il gesto artistico, desacralizzando così ogni componente e riportandola a una delle possibili manifestazioni della contemporaneità: tutto è permeabile e in continuo scambio. C’è un’osmosi fortissima tra la parte ludica e quella espositiva, che celebra il magister di quest’anno, Silver, con le tavole originali incorniciate: il lavoro minuzioso, gli appunti a penna che rimandano a una vignetta precedente, tirate a matita le linee di grandezza della pagina. I visitatori l’attraversano, e passando non resistono alla tentazione di toccare il plastico con la casa di Lupo Alberto e la sua amata gallinella. Un papà osserva una tavola per dieci minuti, fermo, fermo nel tempo il polso di Silver che la tratteggiò, mentre il bambino, vestito da C-1 di “Guerre stellari”, siede a terra ipnotizzato dall’animazione dello stesso fumetto: la guarda scorrere su uno schermo.
È così che si fanno
120mila visitatori e, cosa ancora più notevole in un’Italia di “avvenimenti” ed “eventi”, di mezzucci e favori, è così che si arriva a quota 18 edizioni, diciotto anni, uno dopo l’altro. A partire da quel negozio di fumetti vicino all’università Federico II, dove un gruppetto di ventenni decise di “copiare” il Comic-con (comic convention) di San Diego. Per la prima edizione Claudio Curcio, che oggi è il direttore artistico, si indebitò a tal punto da dover cedere la fumetteria. Oggi il Comicon è un’associazione a cui lavorano tutto l’anno sette persone, e vive di sbigliettamento, affitto stand, scambio merce con vari brand, e qualche finanziamento istituzionale (che vale però come un “assegno postdatato”). E vive della trentennale esperienza di
Luca Boschi, editorialista del “Sole 24 ore”, emigrato qui dal Lucca Comics.
Quando esco nel parco mi intruppo tra i ragazzi che escono dal “check-in armi”, dove hanno loro controllato che i fucili che imbracciavano non potessero sparare davvero: «Sono per la battaglia di Waterloo», mi spiega serissimo un soldato, «vieni dopo al lago a vedere». E ci andrò sì al lago, mentre gli abbonati fanno la fila per ritirare il “kit di sopravvivenza” alla quattro-giorni del Comicon. Sull’acqua più che la battaglia, sebbene ricostruita minuziosamente, mi incantano le lezioni di Harry Potter sull’uso della bacchetta magica. E una partita di scopone tra Alice, lo Stregatto, e due ragazzotti in “borghese”, in jeans e dolcevita. Chi ha fame mangia una pizza piegata a portafogli sul prato: prima di fare lo scontrino la osserviamo con aria critica e sospettosa, ma è pizza: esce da un forno vero, circondato di cataste di legno. Andata. Così deve anche pensarla quella Biancaneve lì giù, bella, alta, biondissima di parrucca, che si china per non farsi colare la mozzarella sull’abito del ballo.
Il Comicon chiude all’imbrunire, mezz’ora prima i più previdenti cominciano a defluire perché sanno cosa li aspetta per tornare a casa. Percorsi protetti da carabinieri, polizia e vigili urbani, serpentoni per prendere metro e cumana. Ma il delirio del ritorno è dolce: non ha l’adrenalina dell’arrivo. I
cosplayer si smontano, la Morte si mette la falce sotto il braccio, i drughi di “Arancia meccanica” sono stanchissimi e buoni buoni in fila,
Dragon Ball cerca il suo biglietto. Al punto autori ci si riposa, le signore si slacciano gli anfibi per infilare le décolleté e il commento di tutti è su quella generazione lì che è appena uscita e ci ha lasciati soli: è un commento articolato e soddisfatto. Dice di come sia inusuale vedere
centomila ragazzi tutti assieme con un libro in mano, che usano un parco per chiacchierare, un vestito per condividere esperienze. Forse accade spesso così quando noi non ci siamo e sono solo i nostri occhi che non se l’aspettano: eppure sentiamo che appartiene a tutti sapere che i nostri figli quella settimana non hanno chiesto i soldi per la ricarica del cellulare ma per iscriversi a un workshop, sentire che parlano di
Zerocalcare, che a qualcuno di loro
Kobane sembra più vicina. Che bevono bibite analcoliche perché devono essere lucidi e attenti quando si spiegherà loro che “Atlas ufo robot” è un immenso refuso: si chiama solo “Ufo robot”, il cartone: “atlas” era la veste grafica che li conteneva.
Nella metropoli che non si fa abbagliare da
Renzi ma neppure sa difendersi dalla camorra, che protegge l’acqua come bene comune e soccombe sotto i colpi nel Rione Sanità: la considerazione che le generazioni crescano pensando che amare il fumetto è partecipare a una forma d’arte, che chi sogna disegna e l’impegno è un’auspicabile droga, è una considerazione dolce che ci accompagna all’ultimo appuntamento della giornata. Il premio per il miglior disegnatore viene ritirato da Igort, con i suoi “Quaderni giapponesi”, opera mirabile, miranda. Sul palco
Silver e
Milo Manara duettano a colpi di aneddoti, il pubblico mormora se un premio arriva a “Dylan Dog” piuttosto che a “Topolino”. Dopo ci sarà la cena, ma io vado, già annotta; tra i pini mediterranei Baru guarda fisso la superficie della piscina, chissà in quante dimensioni la vede, se è ancora colorata o già divisa per linee, nero su bianco. Negli stand illuminati e vuoti c’è solo una figura all’in piedi: la statua di
Superman, il più stakanovista degli eroi, resterà tutta la notte a far la guardia.