Il calcio non mi ha mai conquistato. Non so cosa sia il tifo. Non sono mai stato allo stadio. Non ho mai letto un giornale sportivo né visto un programma televisivo o radiofonico dedicato. Non ho mai giocato una schedina e nemmeno a pallone, neanche da ragazzo.
L’ultima partita (una delle pochissime) che ho visto è stata Italia-Germania nel 1982, l’anno in cui vincemmo i Mondiali (da non tifoso – ma felice quando vincono il Napoli o la nazionale – mi permetto l’uso un po’ abusivo del plurale); e il giorno dopo avevo gli orali degli esami di maturità, per cui, nonostante l’esplosione di felicità che coinvolse anche me – ancora ricordo le sequenze di Sandro Pertini che nell’immediato della vittoria si alza in piedi e a un giornalista che gli chiede un commento risponde, con un entusiasmo che non riesce a contenere: «È la mia più grande gioia da quando sono presidente della Repubblica!» (ah, il vecchio Pert, come lo chiamava il compianto Andrea Pazienza, che talento innato aveva nel sintonizzarsi sentimentalmente con il suo popolo) – non ero nell’animo di uscire di casa e fare baldoria come tutti. Ma quella sera rimane comunque memorabile.
Non dimenticherò mai la pressione della gioia collettiva che pareva entrare nelle case e convocare le persone una a una, chiedendo di uscire per unirsi a una festa che si annunciava come il capodanno dei capodanni e per una volta rendeva tutti, ma proprio tutti, orgogliosi e felici di appartenere alla stessa terra, sentendosi finalmente un popolo, fuori da qualsiasi retorica e autenticamente, fisicamente fieri di esserlo.
A che altro serve, in fondo, una vittoria così ambita, se non a realizzare un’occasione di uguaglianza? Cos’altro dovrebbe renderti felice, nella vittoria della squadra del cuore, se non l’annullamento di ogni differenza dall’altro da te, che in quella felicità debordante diventa un compagno di viaggio, una faccia familiare, qualcuno di cui ti fidi, un testimone di speranza in un mondo diverso e possibile, come una “Imagine” di John Lennon che diventa realtà?
Negli ultimi tempi, la vittoria annunciata del Napoli ha riprodotto, seppure in forma relativamente contenuta dalla scaramanzia, quell’afflato civile, quel gusto della speranza. Napoli, da quella città erotica che è sempre stata, ha una capacità innata di far traspirare i sentimenti che cova (perché Napoli – come poche altre città al mondo – è qualcuno, non qualcosa). Non nasconde l’emozione, non la reprime, non se ne vergogna. La interpreta, ma in maniera tutt’altro che sguaiata: anzi, è proprio nell’orgoglio che se ne percepiscono il candore e la grazia. Quando rinasce (perché la sua storia è segnata da morti e da resurrezioni), e soprattutto quando sta per rinascere o guarire, lo dice. Lo annuncia. La gioia del riscatto la senti nell’aria, nel vociare dei vicoli, nelle facce, in una rinnovata gentilezza, finanche nel rumore del traffico, solitamente molesto, che risente dell’emotività collettiva e acquista una musicalità particolare.
È quest’attesa del grande giorno, la gioia e l’impazienza della festa rimandata, che si percepisce a Napoli da un po’. Poi, al solito, c’è chi si sofferma sul folklore. Chi lo fa con affetto e chi con malcelata supponenza. Chi, pur non essendo napoletano, è felice come se lo fosse e chi rosica. Chi assiste alla vetrina spontanea della città che quartiere per quartiere crea la sua scenografia per prepararsi al grande evento e chi non perde occasione per dare pagelline non richieste, dirti come dovresti far festa e richiamarti alla moderazione (come se poi il bello di Napoli non fosse nel suo rifiuto viscerale della categoria della moderazione; e come se i maestrini volontari avessero una cattedra).
Il fatto è che Napoli ne ha passate così tante da aver imparato a coltivare il piacere che viene dal differire la felicità. È il gusto dell’anticipazione che trasmette questo surplus di vitalità e che pare, andando in giro, faccia muovere le cose, finanche i palazzi.
Del resto, che Napoli abbia un concetto relativo dell’immobilità è storia vecchia. Che ciò che appare stabile non lo sia definitivamente non è mica un’invenzione. Prendete il Museo Filangieri, in via Duomo. Lo fondò il principe di Satriano, Gaetano Filangieri, raccogliendo il compito del nonno (filosofo), di cui portava il nome, di trasmettere un’etica del lavoro alle classi meno abbienti e formare apprendisti. Un comunista ante litteram, ecco (oggi, a uno che compra un palazzo rinascimentale per farci un museo darebbero del radical chic). E per realizzare il museo, cosa fece il principe? Chiese al Consiglio comunale di portare le collezioni di famiglia a Palazzo Como, che i lavori di riqualificazione urbana del Risanamento di Napoli avevano destinato alla demolizione, salvandolo dall’abbattimento. Il palazzo venne smontato e ricostruito venti metri indietro rispetto alla posizione originaria.
È la ragione per cui i napoletani lo chiamano «il palazzo che cammina». Non è buffo? Avrebbero potuto chiamarlo «il palazzo spostato» o «arretrato», perché, per quanto si lavori di fantasia, non è che i palazzi si muovano. E invece no, lo chiamano «il palazzo che cammina»: lo annoverano fra i viventi. Perché, per il napoletano, tutto ciò che lo circonda esiste: quindi lo riconosce e lo accoglie; in qualche caso, lo adotta.
Come le capuzzelle del cimitero delle Fontanelle. Anche qui è indicativa la scelta del nome: testoline. Quale altra città chiamerebbe capuzzella un teschio? Quale altro quartiere (in questo caso, la Sanità) adotterebbe delle ossa e se ne prenderebbe cura come fossero defunti di famiglia? A Napoli succede. È una cosa che si fa. Non c’è niente di strano, o di patologico, nell’adottare dei poveri resti senza nome. Volete che per una città capace di adottare una capuzzella risorgere sia una novità? Certo, è un evento. Ma è una cosa che capita. A Napoli, però.