Ttip: Il trattato commerciale tra Stati Uniti e Ue è un patto avvelenato
La chance: più ricchezza per molte aziende e per il sistema Italia. Il rischio: meno garanzie ai consumatori, meno tutele ai lavoratori e meno sovranità. Pro e contro il trattato commerciale Europa-Usa, il Ttip. Che Renzi fortemente vuole
Se dipendesse dai negoziatori americani la bistecca alla fiorentina sarebbe già fuori mercato. Sostituita da una gigantesca fetta di manzo proveniente dagli allevamenti intensivi del Texas o del Nebraska, dove le mucche sono cresciute a forza di ormoni e antibiotici. Fosse per quelli europei, a essere archiviati nella spazzatura sarebbero invece il falso Asiago e la provola del Wisconsin, versioni falsificate dei nostri prodotti tipici, con tanto di bandierine italiane sulla confezione.
È solo un esempio delle centinaia di trattative in corso. Ma basta a illustrare la distanza delle posizioni tra Unione europea e Stati Uniti alle prese con la negoziazione commerciale del secolo: la prima tra le economie più avanzate del globo. Se andrà in porto (ed è un grande “se”) l’accordo transatlantico chiamato Ttip istituirà un’area di libero scambio che coinvolgerà quasi la metà del prodotto interno lordo mondiale e quasi un miliardo di consumatori. Riguarderà ogni settore economico, dall’agricoltura all’industria, fino ai servizi, con l’unica eccezione esplicita, pretesa da Parigi, del settore degli audiovisivi, e includerà anche la sfera degli appalti pubblici e del reciproco riconoscimento di molti titoli di studio di milioni di giovani già nati globali. A stare al Cepr, il rapporto di valutazione dei suoi effetti voluto dalla Ue, potrebbe aumentare il Pil europeo di una percentuale compresa tra lo 0,2 e lo 0,5 per cento, a seconda dell’estensione degli accordi finali.
Solo una parte minima del trattato riguarda l’abbattimento completo, o quasi, degli ultimi dazi che rendono più costose sia le esportazioni europee sia quelle americane. Ed è una parte, a dire la verità, cara all’Italia perché noi brilliamo proprio in quei settori su cui le tariffe imposte dagli Usa sono ancora significative, come l’agroalimentare, il tessile e la pelletteria su cui incombono dazi anche del 40 per cento. Ma il cuore del trattato è lo smantellamento delle barriere non tariffarie, ovvero di tutte quelle regole protezionistiche e di quegli standard produttivi che rendono più difficili e costose le importazioni di beni e servizi. Se dalla loro eliminazione deriverebbe l’80 per cento dei benefici economici del patto, non è la liberalizzazione spinta del commercio tra le due sponde dell’Atlantico lo scopo principale del Ttip. Lo è invece «la costruzione di un’area che, nel diventare economicamente la più grande ed avanzata del Globo, possa imporre i suoi standard economici e legali sulle altre economie mondiali», spiega a “l’Espresso” Carlo Calenda, classe 1973, negoziatore per l’Italia del Ttip in Europa, nella prima intervista da ministro dello Sviluppo economico: «Questo è il valore fondamentale dell’accordo. Potremo a quel punto dire alla Cina: “Negli ultimi trent’anni ti abbiamo aiutato a crescere e a creare una classe media, facilitando le tue esportazioni. Ora è tempo che apri i tuoi mercati ai nostri prodotti”. Se non riusciremo a farlo adesso, tra 15 anni non ne avremo più la possibilità e la forza, e i cinesi si potranno tenere i loro dazi alti e non fare entrare le nostre merci».
[[ge:rep-locali:espresso:285204166]] Negli occhi del presidente americano Barack Obama la creazione di questa gigantesca area di scambio sulle sponde dell’Atlantico, unitamente a quella che ha definito con i principali Paesi che si affacciano sull’oceano Pacifico - dal Canada al Perù, dal Messico al Vietnam, fino all’Australia - dovrebbe porre rimedio alle distorsioni provocate dalla globalizzazione come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. Che se ha creato e sostenuto le classi medie nelle economie dei Paesi in via di sviluppo ha messo però sotto pressione il ceto medio in quelle avanzate. E ha trasformato il Paese comunista di Mao Tse Dong nella seconda economia mondiale, senza averne scalfito il sistema politico dittatoriale. Contrariamente alle aspettative.
Omogeneizzare standard e procedure non è però né semplice né indolore. Non quando, pur avendo molti valori universali in comune, le filosofie economiche, legali e sociali di due Continenti economicamente equivalenti sono tanto diverse. E così ci sono settori industriali come la chimica, le auto, la farmaceutica e i dispositivi medicali, in cui l’omogeneizzazione degli standard è poco controversa perché riduce i costi dei produttori oggi obbligati a doppie specifiche tecniche e amplia la scelta dei consumatori. Ma ce ne sono altri, come l’agroalimentare o gli stessi servizi pubblici (che in teoria sono esclusi dal tratatto ma la cui definzione internzionale lascia spazi all’ambiguità), dove i cambiamenti rischiano di provocare a un abbassamento degli standard di vita dei cittadini europei. Il come è presto detto. L’Europa non permette produzioni potenzialmente nocive della salute: caso iconico sono gli organismi geneticamente modificati. Per noi prevenire è meglio che curare. Gli Usa, invece, per non danneggiare gli imprenditori, richiedono una dimostrazione scientifica della pericolosità del prodotto per eliminarlo dal mercato, addebitando al consumatori l’onere della prova e l’assunzione del rischio di malattia o addirittura di morte.
Due sono i prodotti che incarnano l’abisso culturale tra le due sponde dell’Oceano: il manzo arricchito di ormoni e antibiotici e i polli chimici. Sono il frutto delle condizioni di vita in un allevamento intensivo: gli ormoni rendono la carne più magra, gli antibiotici prevengono le malattie e i lavaggi con la clorina depurando le carcasse dei polli da eventuali infezioni. In Europa invece è tutto il processo produttivo ad essere controllato in ogni sua fase, dal momento in cui nasce l’animale a quando finisce sul piatto. Filosofie e stili di vita inconciliabili, appunto. Come quelli che hanno a che fare con la protezione dell’ambiente: in Europa gli standard sono spesso più rigorosi di quelli americani, soprattutto sui pesticidi che contengono agenti chimici potenzialmente cancerogeni.
Al di là delle divergenze fitosanitarie, semplici e immediate da spiegare alla popolazione e dunque cavallo di battaglia per gli oppositori del Ttip, rimane la questione del se e come il nostro comparto agricolo (caratterizzato da prodotti qualificati e protetti dalla loro provenienza geografica che gli americani, abituati alla sola tutela del marchio di fabbrica, non capiscono, e da una produzione di piccole o medie dimensioni) possa fare fronte all’invasione delle esportazioni agricole di massa dei colossi agroalimentari statunitensi. Secondo uno studio redatto dal parlamento europeo, con l’approvazione del Ttip le esportazioni agricole americane verso la Ue godrebbero di una crescita doppia rispetto a quella delle esportazioni agricole verso gli Usa, addirittura esponenziale nel settore dei latticini.
Lo stesso ministero dell’Agricoltura americano, in un documento citato da Greenpeace, prevede una diminuzione del prezzo pagato ai contadini europei in ogni categoria alimentare, con l’eccezione dei formaggi. Un rapporto di Friends of Earth esprime invece la preoccupazione che il settore agricolo finirà per diventare su entrambe le sponde dell’Atlantico monopolio di poche multinazionali, con comparti decimati - frutta e ortaggi, cereali, carne bianca, latticini - e conseguente perdita di posti di lavoro.
Tutti gli studi sull’impatto del Ttip, dal Cepr a quello stilato dall’università Tufts negli Usa, sottolineano come l’accordo inevitabilmente avrà delle ricadute sull’occupazione, negative o positive a seconda del settore. Se comparti come quelli delle auto, dei macchinari di precisione o del tabacco sperimenteranno una crescita di produttività e di occupazione sarà perché altrove, nell’agricoltura o nel settore dei prodotti elettrici, ad esempio, in seguito alla chiusura delle aziende, i lavoratori, soprattutto quelli poco qualificati, saranno costretti a cambiare mestiere. «Ogni Paese si concentrerà su quello che sa fare meglio», sostiene l’economista Carlo Stagnaro. Ed è bene che, in un primo periodo di aggiustamento alla nuova situazione commerciale, l’Europa sia preparata con strumenti di aiuto alla disoccupazione e di sostegno alla formazione. Anche perché, tirando una riga, rischia comunque di perdere tra i 450 mila (Cepr) e i 600 mila (Tufts) posti di lavoro.
I prodotti costituiscono solo una parte del trattato che ambisce a regolare l’intera vita economica del blocco occidentale, servizi inclusi. Attuali e futuri. Se avessero la meglio gli interessi d’Oltreoceano, i burocrati europei sarebbero quotidianamente affiancati dai lobbisti made in Usa, entusiasti all’idea di armonizzare le nostre normative in senso stelle e strisce, dalle assicurazioni alla cura della persona. È vero anche però che la Commissione europea insiste affinché i cugini d’Oltreoceano ratifichino le convenzioni internazionali sul lavoro per evitare che gli europei finiscano con le misere tutele lavorative americane. Secondo i critici, infatti, ci sarebbe il rischio che le aziende Usa chiedano di applicare nella Ue i contratti “iper liberisti” esistenti negli Stati Uniti.
Ma è sui tribunali internazionali dove risolvere le dispute tra le società che si sentiranno danneggiate nei propri investimenti e gli Stati che non vorranno perdere la propria sovranità decisionale, che la polemica è violenta. Il timore di diventare poco più di una colonia delle multinazionali americane terrorizza gli europei di ogni provenienza nazionale in un momento storico in cui tollerano a stento perfino le regole comunitarie. «Perché non utilizzare i tribunali nazionali per le dispute con gli Usa?» si chiede Marco Bersani, leader della rete Stop Ttip. «Perché in un futuro accordo commerciale tra Ue e Cina quest’ultima non accetterebbe mai un trattamento inferiore a quello riservato ai due blocchi occidentali e in quel caso i tribunali sovranazionali sarebbero indispensabili», risponde Calenda pensando all’obiettivo di lungo termine del trattato.
Ma di ulteriori trattati un’opinione pubblica sempre più scettica sulle virtù della globalizzazione non ne vuol sentir parlare. Secondo gli addetti ai lavori, con le elezioni Usa dietro l’angolo, le possibilità che il Ttip venga approvato entro il 2016 non superano il 10 per cento, rispetto al 60 per cento di solo un anno fa. E sono pochi i settori su cui è scontata l’intesa, principalmente quelli in cui sono gli Usa ad avere standard di sicurezza più elevati, come per le auto. «L’America ha perso troppo tempo con il trattato del Pacifico e non ha investito quanto avrebbe dovuto nella negoziazione con l’Europa, tra l’altro più facile per loro», continua Calenda: «Washington ha sempre dato un’attenzione al Pacifico superiore al rapporto con l’Europa, cosa che per me è stata un errore strategico».
Dati Fondo Monetario Internazionale aggiornati al 2014