E' dal 2010 che il fondatore di WikiLeaks deve essere sentito dai magistrati svedesi per essere incriminato o scagionato una volta per tutte. Nelle prossime settimane, si svolgerà l'interrogatorio a Londra

E' la notizia attesa da sei anni. Julian Assange verrà interrogato a Londra, nella sede dell'ambasciata dell'Ecuador di Knighstbridge, nelle prossime settimane. La data esatta non si conosce ancora, come ha confermato stamani a “l'Espresso” l'accusa, la "Swedish Prosecution Authority" di Stoccolma. Ma l'interrogatorio porrà fine a un'impasse infinita: dopo averlo sentito, il procuratore svedese Marianne Ny dovrà finalmente decidere se incriminare Julian Assange o proscioglierlo una volta per tutte.

Sì perché da settembre 2010, quando Ny ha riaperto l'indagine per stupro a carico del fondatore di WikiLeaks, dopo che il procuratore svedese Eva Finne aveva chiuso il caso, derubricando le accuse a molestie, l'inchiesta non ha fatto un passo in avanti: è rimasta alla fase preliminare, lasciando Assange in un limbo legale senza uscita.

In sei anni il fondatore di WikiLeaks non è stato mai né interrogato né incriminato né prosciolto. E dopo che il 19 giugno 2012 si è rifugiato nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra, tanto i legali di Assange quanto il governo di Quito hanno provato più volte a chiedere ai magistrati svedesi di interrogarlo a Londra, invece che di estradarlo in Svezia solo per interrogarlo. Ma la richiesta è sempre stata rigettata dal procuratore Marianne Ny.

La paralisi giudiziaria che ormai si registra da sei anni nel procedimento legale contro Julian Assange è stata censurata anche dalla Corte di Appello svedese (Svea Hovrätt), che già due anni fa sentenziò: «La Corte d'Appello nota, comunque, che l'indagine è ferma e ritiene che il fallimento dei procuratori nell'esaminare alternative non sia in linea con i loro obblighi – nell'interesse di tutte le parti coinvolte – di far progredire l'indagine preliminare».

Solo dopo questo pronunciamento della Corte di Appello, il procuratore Marianne Ny ha accettato la possibilità di interrogare Julian Assange a Londra, senza estradarlo in Svezia. Assange, infatti, non si è mai opposto all'interrogatorio, si è sempre opposto, con ogni mezzo legale, all'estradizione in Svezia solo per essere interrogato, convinto che questa misura aprisse la via a una possibile estradizione negli Stati Uniti, dove dal 2010 è in corso un'inchiesta su WikiLeaks per la pubblicazione dei documenti segreti del governo americano.

Nel suo comunicato ufficiale, il ministero degli Esteri dell'Ecuador ricorda come «Per oltre quattro anni, il governo dell'Ecuador ha offerto collaborazione per facilitare l'interrogatorio di Julian Assange nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra».

A febbraio, a intervenire sul caso di Julian Assange sono state le Nazioni Unite. Il Working Group on Arbitrary Detention dell'Onu (Unwgad) ha stabilito (qui la decisione in inglese) che il fondatore di WikiLeaks è detenuto arbitrariamente e che Svezia e Inghilterra, responsabili per il suo stato di reclusione, devono assicurargli libertà di movimento e risarcirlo.

A oggi, tanto la Svezia quanto l'Inghilterra continuano a ignorare il pronunciamento delle Nazioni Unite e, mentre la Svezia ha deciso di non sfidare la decisione dell'Onu, l'Inghilterra ha presentato ricorso. Proprio questa settimana i legali di Assange hanno presentato un'istanza legale per chiedere alla Svezia di attenersi alla decisione dell'Onu.

L'Espresso ha presentato numerose richieste di accesso agli atti del procedimento giudiziario contro Julian Assange per cercare di far luce in un caso che chiaro non è: il nostro giornale ha richiesto i documenti dell'accusa con il Freedom of Information Act (Foia) tanto alla Swedish Prosecution Authority di Stoccolma quanto al Crown Prosecution Service di Londra e a Scotland Yard, che sono la controparte inglese del procedimento svedese contro Assange: il fondatore di WikiLeaks, infatti, è oggetto di un'indagine criminale in Svezia, ma si trova nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra, dove ha ottenuto asilo politico.

Da qui la competenza delle autorità inglesi della Crown Prosecution Service e di Scotland Yard.

Mentre l'accusa svedese ha rilasciato a l'Espresso la copia di alcuni documenti sull'inchiesta contro Assange, le autorità inglesi hanno rigettato ogni nostra richiesta ai sensi del Foia, tanto che il nostro giornale ha fatto ricorso ed è in attesa dell'esito.

L'Espresso ha anche verificato con l'International Federation of Journalists (Ijf), la più grande organizzazione mondiale che difende i diritti dei giornalisti, se l'Ijf fosse mai stato chiamato a pronunciarsi sullo stato di detenzione arbitraria di Julian Assange, considerando che WikiLeaks è un'organizzazione giornalistica e Assange ne è il fondatore e l'editore. Il segretario generale dell'Ijf, Ricardo Gutierrez, ha comunicato a l'Espresso che mai nessun giornalista o giornale, prima di noi, aveva chiesto di valutare il caso: «Non ci è mai stato richiesto da nessuno di pronunciarci sullo stato di detenzione del signor Assange», ci ha risposto Gutierrez. Una risposta che dà una misura dello stato di inazione generale sul caso.

Né il fondatore di WikiLeaks è unico in questa sua situazione difficile: ieri, un gruppo di organizzazioni per i diritti umani ha consegnato 115mila firme per chiedere al governo americano di non sottoporre la fonte di WikiLeaks, Chelsea Manning, allo stato di detenzione in regime di isolamento. Manning, infatti, rischia di dover passare 35 anni in isolamento, dopo aver cercato di togliersi la vita: una misura draconiana non solo incompatibile con il suo stato psicofisico, ma anche una risposta che a molti critici suona come una crudele ritorsione contro la fonte di WikiLeaks. E il fatto che sia una fonte giornalistica -come il processo davanti alla corte marziale ha stabilito, al di là di ogni ragionevole dubbio - e che quindi ha diritto di essere protetta, non sembra interessare nessuno.

L'unica condanna del trattamento di Chelsea Manning senza se e senza ma è arrivata dal celebre whistleblower che ha rivelato i “Pentagon Papers”, Daniel Ellsberg: «Le rivelazioni di Chelsea Manning non hanno provocato alcun danno. La scelta di non assicurarle un appropriato trattamento medico e anzi di aggiungere nuovi capi di accusi dopo il suo tentativo di suicidarsi sembrano mirate a farla crollare come essere umane: sono accuse che a me appaiono sadiche e vergognose».