Secondo i dati Eurtostat la raccolta riciclata in Italia è passata dallo scarso 17,6 per cento del 2004 al 42,5 per cento del 2014. Non mancano casi virtuosi. Come Verona che si prepara a esportare il proprio modello di funzionamento in Albania, Serbia e Libia

Il caos, l’emergenza, la mafia dei rifiuti. Quando si parla di immondizia, la cronaca non lesina i termini drammatici per raccontare un problema pluridecennale che affligge il Belpaese. La crisi in corso a Roma, con le strade della capitale invase dalla “monnezza” sotto lo sguardo attonito di migliaia di cittadini e turisti, non è che l’ultimo atto in ordine di tempo di un dramma apparentemente senza soluzioni che non siano costose e temporanee, come trasferire i rifiuti negli inceneritori di mezza Europa o riaprire vecchie discariche ormai completamente sature.

In realtà le cose vanno diversamente: l’Italia è piena di “Comuni Ricicloni”, per usare il nome dell’iniziativa con cui ogni anno Legambiente recensisce l’operato di oltre 1500 amministrazioni locali dove la raccolta differenziata supera il 65 per cento. Sono numeri incoraggianti (si parla di oltre dieci milioni di cittadini interessati), come incoraggianti sono i dati forniti da Eurostat, secondo cui la raccolta differenziata in Italia è passata dallo scarso 17,6 per cento del 2004 al buon 42,5 per cento del 2014.

Sono tanti, dunque, i comuni oggi impegnati in prima linea per risolvere l’annoso problema dei rifiuti. Tra questi figurano realtà come Milano, dove la differenziata è al 53,4 per cento (dati AMSA), o come Ponte Delle Alpi, in provincia di Belluno, che nel 2015 si è classificato primo tra i Comuni Ricicloni portando la raccolta differenziata al 90 per cento. O ancora come il comune di Capannori, in provincia di Lucca, che ormai da alcuni anni lavora per azzerare i rifiuti conferiti in discarica intensificando la raccolta differenziata, che punta sul recupero e riuso di oggetti che possono essere ancora utili, e dove i cittadini più virtuosi pagano tariffe inferiori per lo smaltimento dell’immondizia.

E poi c’è Verona, con i suoi quasi 260 mila abitanti e la raccolta differenziata che si attesta al 50 per cento. Nel capoluogo veneto, smaltimento dei rifiuti e decoro urbano sono affare di AMIA, azienda municipalizzata con 600 dipendenti guidata da Andrea Miglioranzi che non solo è in attivo, ma che ora si prepara a esportare il proprio modello di funzionamento ben oltre i confini della provincia veronese, per esempio in Albania, Serbia e Libia. «Intanto abbiamo vinto la gara internazionale per gestire i rifiuti a Berat – spiega infatti Miglioranzi – città albanese da 120 mila abitanti patrimonio dell’UNESCO, dove dal primo settembre entriamo con due progetti: uno per la gestione vera e propria dei rifiuti, e l’altro per fare formazione nelle scuole sulla raccolta differenziata». 

Già, perché per gestire e risolvere il problema dei rifiuti, bisogna partire dalle persone, che devono essere formate sul da farsi e informate puntualmente riguardo a ciò che viene fatto: «Noi manteniamo la massima trasparenza sul nostro operato – conferma Miglioranzi – in modo che anche la più ordinaria delle azioni venga comunicata puntualmente al pubblico». Il riscontro è forte e immediato, perché il cittadino vuole sapere tutto e al contempo fornisce informazioni, mentre si aspetta feedback rapidi e mirati. «Siamo costantemente presenti sul territorio con personale e sistemi di sorveglianza per assicurare la conservazione e il rispetto del decoro urbano – aggiunge il presidente di AMIA – Dialoghiamo con il cittadino usando tutti i canali disponibili, da quelli tradizionali ai social network, dove io stesso rispondo personalmente ogni volta che posso. Il nostro URP da solo riceve 11mila segnalazioni l’anno». Trasparenza e dialogo dunque, ma anche tempi rapidi di reazione alle istanze proposte “dal basso”, dagli utenti che così vengono ripagati della loro partecipazione e collaborazione nella gestione dei rifiuti.

Rifiuti che, è bene ricordarlo, quando recuperati in maniera appropriata diventano una risorsa immensa, il carburante con cui far funzionare quella cosiddetta “economia circolare” verso cui la Commissione dell’Unione europea vuole spingere tutti gli stati membri, come testimoniano le misure approvate già nel luglio 2014 e poi ancora nel dicembre 2015.

«L’economia circolare è un processo che si occupa delle materie prime utilizzate per scopi industriali o civili, dove queste non si trasformano in rifiuto, ma vengono recuperate e impiegate per usi sempre nuovi», spiega Massimiliano Leprotti, co-autore del libro “Economia Innovatrice” (Edizioni Ambiente, giugno 2016). E continua: «Affinché ciò sia possibile, bisogna lavorare sia a monte del processo, progettando prodotti che nascano già riciclabili, sia a valle, riducendo al massimo l’impatto ambientale con la raccolta differenziata, il riciclaggio e il riuso, pratica ancora poco diffusa in Italia anche a causa di ostacoli normativi». 

Affinché ciò sia possibile – spiega ancora Lepratti – devono coesistere almeno tre fattori abilitanti: una ferma volontà politica di sostenere a far crescere la raccolta differenziata; la predisposizione di metodi efficaci di raccolta dei rifiuti, tra i quali «quello porta a porta risulta essere senza dubbio il migliore»; infine, una efficace e puntuale comunicazione con il cittadino.

C’è un patrimonio immenso di materie prime seconde che aspetta di essere sfruttato – conclude Lepratti – e che di fatto può ridurre non solo i costi di produzione, ma anche la nostra dipendenza da fornitori localizzati in contesti geopolitici instabili, dove l’andamento dei prezzi è imprevedibile.

Intanto c’è in Italia già chi si adopera in questo senso, forzando la mano alla burocrazia e dimostrando sul campo le potenzialità dell’economia circolare.  E’ il caso di Mapei e del suo additivo innovativo Re-con Zero, che in pochi minuti trasforma il calcestruzzo di scarto in un aggregato pronto per la produzione di nuovo calcestruzzo. O della toscana Lucart, che recupera il Tetrapak al 100 per cento. E poi ancora di Fungo Box, impresa sociale milanese specializzata in agricoltura urbana, che recupera il caffè usato e lo trasforma due volte: la prima in funghi di alta qualità, e la seconda in fertilizzante per il terreno. Un perfetto esempio di impresa nata in «un’economia pensata per potersi rigenerare da sola», come recita la definizione di Circular Economy coniata dalla MacArthur Foundation. 

«Siamo una cooperativa sociale che da anni si occupa di manutenzione del verde pubblico e che ora punta anche su un prodotto che viene da uno scarto», racconta Laura Gallo, co-fondatrice di Fungo Box. Il progetto nasce con l’input e il sostegno di Lavazza e di Novamont (azienda internazionale specializzata nella produzione di bioplastiche), ma anche grazie alla collaborazione con i francesi di Upcycle, che hanno fornito il know-how per il riutilizzo dei fondi di caffè.

«Il nostro modello di business è produrre funghi di alta qualità per i ristoratori, quindi riutilizzare gli scarti come fertilizzante», spiega Laura Gallo, che rivela anche come il primo cliente sarà il ristorante dell’Associazione Consorzio Cantiere Cuccagna a Milano. «Partiamo a settembre, poi contiamo di aggiungere un ristorante al mese anche grazie al fatto che il prodotto è eccellente. E sempre sperando che la regione Lombardia recepisca anche la nuova circolare 10045 del primo luglio», che dovrebbe finalmente semplificare il recupero degli scarti di caffè prima che vengano conferiti in discarica. In più c’è la “scatola”, il Fungo Box tutto incluso per crescere i funghi in casa che l’azienda vende ai privati via internet.

Laura Gallo è ottimista, perché secondo lei creare un nuovo business rispettoso dell’ambiente partendo dai rifiuti è qualcosa che «in Italia si può fare: con fatica, con tanti investimenti in termini di tempo, idee, interessi e anima, oltre che soldi. Stimolando il cambiamento di alcune politiche che bloccano le imprese. Valorizzando il talento e la creatività di chi fa impresa pensando al sociale – conclude – ce la possiamo fare».