Per decenni i partiti hanno dimenticato le fasce deboli. Ora tentano ?di correre ai ripari. E sarà ?il tema dei prossimi mesi
Tutti i governi che si sono succeduti a Palazzo Chigi negli anni Duemila hanno lasciato nel loro retrobottega politiche sociali inclusive, rivolte agli strati popolari. La destra, coerente con il suo Dna, non si è certo curata di adottare politiche redistributive a favore dei ceti sottoprivilegiati, semmai ha favorito i benestanti e i detentori di patrimoni o, più semplicemente, chi “poteva fare i prezzi” come al tempo del changeover lira/euro.
Per la sinistra la dimenticanza di quella che un tempo si sarebbe detta la “questione sociale” ha avuto effetti devastanti. Non ha capito che rincorrendo il neoliberalismo in versione light - in sostanza quello proposto da Tony Blair alla metà degli anni Novanta - avrebbe perso su tutti i fronti: non avrebbe conquistato i ceti moderati, che comunque avrebbero preferito l’originale alla fotocopia, e avrebbe perso i propri sostenitori tradizionali.
La grande vittoria di Blair non riguardava tanto i suoi elementi modernizzatori, quanto piuttosto la saturazione dell’elettorato per il quasi ventennale dominio conservatore. Non era un modello esportabile, riguardava il contesto britannico, con sindacati stra e pre-potenti e un partito anchilosato. Invece, quella strategia attraversò tutto il continente e le sinistre fecero a gara nel dimostrarsi sempre più riformiste, laddove il termine subì una stupefacente torsione semantica: perse il suo connotato di cambiamento in direzione di maggiore giustizia sociale e acquisì quello di adeguamento alle leggi del mercato e della globalizzazione. Le riforme che si invocano hanno perso il loro significato progressista. Oggi indicano piuttosto restrizione dei diritti sociali, mercato del lavoro meno regolato, welfare tagliato, e via libera agli animal spirits.
La ritirata della sinistra dalle proprie storiche piazzeforti ha aperto la strada all’irruzione dei populisti nelle loro diverse incarnazioni. Mentre in Europa era la destra estrema, sotto l’impulso e l’esempio del Front National francese di Le Pen padre, che rosicchiava consensi popolari alla sinistra, in Italia se ne occupavano la Lega e in certa misura anche Forza Italia.
I partiti postcomunisti, fino al Pd, non erano più caratterizzati dalla sovra-rappresentazione dei ceti con occupazioni manuali o di bassa qualificazione. Queste componenti rimanevano avvinte alla sinistra a stento: li aiutava la radicale contrapposizione politica al forzaleghismo. Ma le politiche sociali della sinistra di governo non si distinguevano troppo, salvo piccole isole che venivano più nascoste che esaltate, da quelle dei partiti avversari.
La resistenza a sinistra dei ceti popolari è crollata insieme al declino della destra, e fatale è stato il sostegno assicurato al governo Monti. Si è diffuso in quegli anni un senso di tradimento che rimaneva inespresso, perché di fronte c’era il nemico. Declinato il berlusconismo, anche in virtù di altri fattori, questo sentimento di abbandono è tracimato verso i 5Stelle, unico sbocco potabile in quanto nuovo e antagonista. In effetti, al di là del richiamo anti-casta, il M5S non aveva molte frecce nel 2013 per attrarre quei ceti. Semmai, seguendo le indicazioni di Gianroberto Casaleggio, il Movimento rincorreva partite Iva e piccoli imprenditori del Centro-Nord bruciati dalla crisi, più che cassintegrati, precari e disoccupati.
Solo in seguito è stata formulata la proposta del reddito di cittadinanza che, benché non sia universale, contrariamente a quanto viene detto, ha assunto il valore simbolico di affermazione di diritti sociali. Se poi a questo si associa il persistente stato di incertezza sulle prospettive economiche e i tagli crescenti nei servizi sociali si capisce perché le periferie delle grandi città e buona parte del Sud abbiano finito per plebiscitare i grillini nelle elezioni amministrativi e votato no al referendum.
La domanda di protezione dopo tanti anni crisi sta diventando un urlo lacerante. La destra populista già da tempo lo raccoglie in tutta Europa, e da noi Salvini parla di disoccupazione, altro che secessione. Senza una virata in difesa del welfare, ripensato quanto si vuole ma esteso e garantito, il governo Gentiloni e i partiti che lo sostengono sono desinati ad una disfatta.