Colpa dell’estradiolo ti diranno, ma quello che trapassa la sobria cinquantenne dall’invidiabile incarnato e un sospetto di chierica sulla nuca, che mi fissa con attenzione, non è solo effetto collaterale della terapia ormonale, c’è qualcos’altro, che non si può protocollare con la biologia o la chimica organica: la solitudine dell’unicorno che lotta per trovare se stesso.
Pochi sanno, se non gli interessati, che il più feroce, implacabile giudice della “sua” condizione è sempre la persona transessuale. Colui che si comminerà ad oltranza le punizioni più raffinate, la voce che ti rimbomberà in testa: «Maledetto, frocio malato di mente, pervertito, cesso umano». Quello che prima o poi sentenzierà: «Devi ammazzarti».
Per anni Leda si è sentita un mostro, un reietto inclassificabile nel genere umano, perché di mostri come lui-lei non se ne vedevano, era l’appendice di un malvagio parassita che viveva nel suo corpaccione e la dilaniava. Qualche volta il suicidio le è sembrato l’unica soluzione, ovvero il suo destino. Fino a pochi anni fa la disforia di genere era ignota, la definizione di persona transessuale era vaga e ambigua, non c’erano sportelli a cui rivolgersi per dare un nome al processo che sconvolgeva la mente e il rapporto con il mondo esterno, mentre oggi a Genova c’è addirittura uno sportello antigender affinché sia noto il pericolo sociale di simili inclinazioni.
L’ignoranza e l’indifferenza hanno portato Leda, come molte altre, a vivere con vergogna, sensi di colpa e stupore la propria strana condizione. Confusa da una ridda di emozioni contrastanti ha lottato anni per capacitarsi che non era un mostro, si è accettata solo quando ha ammesso davanti agli altri cosa desiderava veramente nella vita: una riassegnazione sessuale per sentirsi se stessa. Il cambio di identità anagrafica, avvenuto pochi mesi fa, è stato il primo grande passo verso una normalità.
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Da cinque anni Leda segue il percorso di transizione verso l’unica identità sessuale plausibile: MtF, “male to female”, da maschio a femmina. Ai primordi non ha avuto alleati Leda, sola contro tutti, in primis contro se stessa. Un passo dopo l’altro con la costante angoscia di sbagliare.
Quanto coraggio c’è voluto per arrivare fin qui, per accantonare la pesantezza e la sofferenza di una vita fittizia, la biografia di un uomo 80 kg per 1,82, che ha cercato con ogni mezzo di reprimere l’istinto che sentiva sin dall’infanzia, patendo l’essere da sempre una femmina imprigionata in un corpo maschile, con un nome di maschio. Quanto coraggio nell’autoinfliggersi per anni la violenza, unico mezzo per adeguarsi alle aspettative familiari e sociali legate al sesso anagrafico: Leda ha prestato il servizio militare in Fanteria meccanizzata a Cividale del Friuli, è stata fidanzato, marito, padre, allevatore di tacchini bio, giardiniere, infine autotrasportatore. Finché sei anni fa, ingenue foto rubate all’alba mentre va a prendere il camion, autoscatti nelle vetrine dei negozi, con la parrucca - il caschetto alla Raffaella Carrà - e la gonna plissé, orecchini vistosi, il braccialetto, gli stivali da donna, orpelli che avrebbe nascosto con pudore e vergogna, finiscono apparentemente nelle mani sbagliate, che a posteriori si sono rivelate le uniche capaci di liberare Leda dalla clandestinità.

La vita di Leda si inabissa in quaranta minuti. Non cercherà nemmeno di spiegare il suo dolore e quello che la squassa, difficile che l’interlocutrice abbia gli strumenti intellettuali per comprendere il dolore di chi soffre di disforia di genere. Soprattutto se si tratta di tuo marito e del padre dei tuoi figli. È il momento fatale che deciderà di una vita: da un lato Leda è sollevata di aver confessato ciò che reprime in sé da almeno 40 anni, dall’altro è terrorizzata da se stessa e dalla reazione dei suoi congiunti. Avanza rabbiosa, aggressiva, incattivita e depressa, non riesce a instaurare un dialogo, nemmeno sul fronte del litigio con la sua famiglia. Cala il silenzio, entrano in scena gli avvocati.
L’unico rapporto fra Leda e i suoi cari passa per le carte bollate e le ingiunzioni di pagamento. Finché può, Leda verserà le spese di mantenimento, privandosi via via del sostentamento. È il momento più buio, il datore di lavoro non ha certo intenzione di sopportare un camionista che si rifiuta di effettuare un viaggio perché deve andare in ospedale a prendere la pillola anticoncezionale, ovvero dallo psichiatra per dimostrare che non è folle. Mal si concilia il delicato percorso medico-legale con le esigenze di trasportare un container carico di mazzancolle del Pacifico destinate ai ristoranti cinesi. Nemmeno la mamma la accetta. Resta sola Leda. Inizia così l’impervio cammino farmacologico e legale per il cambio di sesso. Un percorso fatto di emotività esasperata, di paure, di spese legali e mediche, di solitudine estrema.
Per accedere al sistema di transizione Leda ha dovuto dimostrare - con perizie psichiatriche - di non essere affetta da patologie psichiatriche concomitanti, perché la disforia di genere è classificata come malattia mentale, per la legge il non riconoscersi affatto nel sesso biologico della nascita, è una “patologia mentale”. Diagnosticata da operatori della salute mentale sarà “curata” con trattamenti endocrinologici - gli ormoni - e/o chirurgici. Per conquistarsi un corpo coerente con il proprio istinto, si deve dimostrare prova di persistente malessere, e non ci vuole granché perché si è accompagnati, non solo agli albori ma anche nel prosieguo, dagli sguardi di gente che strabuzza gli occhi, ridacchia, ovvero lancia commenti volgari, ma non una bensì diecimila volte, il che fa da moltiplicatore allo stress e al disagio emozionale, al turbamento legato all’assunzione - necessaria - degli ormoni femminili.
Le lettrici capiranno. Immaginate di vivere gli sbalzi di umore, le fragilità, la commozione, la debolezza, l’emicrania e la nausea di una perenne sindrome premestruale. Le emozioni interne si amplificano, montano angoscia e depressione, a cui non seguirà il ciclo liberatorio. No, qui si va avanti ad oltranza. Vita natural durante.
Le persone transessuali sono informate - firmano pertanto una liberatoria - che nella somministrazione di ormoni sono usate come cavie, ma non ricevono un compenso per questo, sperimentano in corpore vili, aprendo la strada ai posteri, consce di un’aspettativa di vita più breve di almeno 15 anni rispetto agli altri.
Intanto il corpo inizia la sua metamorfosi: diminuisce la libido maschile, aumenta il volume del seno, scompare la massa magra, e quella grassa si ridistribuisce nei punti strategici. Il pisello si atrofizza, la vagina resta un sogno. La persona non ha più genitali per gratificare il desiderio sessuale. Il percorso di trasformazione per molti si conclude nel perfezionamento di caratteri femminili - mantenendo l’organo sessuale della nascita - per chi se lo può permettere trattamenti estetici e chirurgici ovviano le imperfezioni e i tempi del trattamento ormonale: subito due tettone della quinta , un nasino alla francese, zigomi ben pronunciati, via la cartilagine tiroidea. Per sottoporsi alla chirurgia ci vogliono soldi e se non si è ricchi di famiglia unica via praticabile è la prostituzione. E se non ci si vuole prostituire il cammino è ancora più faticoso. Questa la scelta di Leda, che ancora una volta ce la farà da sola, pazienza se a fine mese non può permettersi neppure un caffè in piedi al bancone del bar, ed è costretta a mascherare il pomo d’Adamo con un foulard. Il costo dell’intervento definitivo, una vaginoplastica che trasformerà la persona transessuale, nell’altro sesso - orgasmi compresi - varia da 14.000 a un massimo di 22 mila euro: in Thailandia vendono un pacchetto tutto compreso, viaggio soggiorno intervento.
Licenziata nel luglio del 2015 dall’ultimo lavoro a tempo determinato - camionista - Leda vive con un sussidio di disoccupazione, non più cospicuo di una pensione sociale, che la garantisce fino a giugno di quest’anno. Ha proseguito il suo solitario cammino trasferendosi a Torino città dove, a differenza della Liguria, ha trovato associazioni e realtà locali più sensibili allo status della persona transessuale.
Il primo vero successo arriva un anno fa, quando il tribunale di Savona riconosce con sentenza il diritto di Leda al cambio di sesso anagrafico e l’ottenimento della carta di identità transessuale. Vittoria dovuta anche al fatto che nessuno della famiglia si è opposto a questo atto. La conquista della nuova identità anagrafica è stata possibile grazie all’interpretazione favorevole della Consulta - nel novembre 2015 - della legge 164 del 1982 , che era stata sempre applicata considerando l’operazione chirurgica come requisito fondamentale alla rettificazione anagrafica. Per molti è stata la fine di disagi psichici e sociali, perché avere un sembiante femminile e un nome maschile, non solo nella vita di tutti i giorni ma sopratutto nella ricerca di un lavoro, era imbarazzante e discriminatorio. Leda ricorda che quando era camionista le forze dell’ordine, pur non comprendendo il suo stato, si sono sempre dimostrate gentili.
Il momento più bello è stato sul posto di lavoro, la ditta di autotrasporti, quando un collega, il fenotipo del maschio volgare e arrogante, fu il primo ad accettare l’abbigliamento femminile di Leda.
Forte dei suoi nuovi documenti Leda intraprende altri lavori: l’immobiliarista, la venditrice di prodotti ecologici per l’igiene della casa e della persona, magari anche la contabile. Eccola qui infine Leda, con il suo foulard rosso, sorridente al tavolino di un caffè torinese, troppo vicino all’hotel Roma da cui Cesare Pavese è partito per l’ultimo viaggio, un filo di trucco, orecchini discreti, ormai non ha più l’urgenza di affermare il suo sentirsi femmina con capospalla esagerati e tacchi, è più tranquilla, anche se la strada è ancora lunga e greve di incognite. Oggi sembra già primavera. E chissenefrega se il limite dei 70 anni di aspettativa di vita si avvicina sempre più, mentre i tempi della lista di attesa per l’intervento chirurgico si allungano. Leda sta raggiungendo se stessa ed è la sola cosa che conta.