Giornalista, collaboratore del nostro giornale (per il quale ha seguito il caso Regeni), vive a Rimini da quando era bambino. Qui Maarad racconta cosa vuol dire sentirsi italiano ma non poterlo diventare per via della legge. E cosa cambierebbe per lui, e per altri giovani come lui, se fosse approvata la nuova norma

Le elezioni per ogni giornalista sono uno spasso: settimane di campagna elettorale, incontri pubblici, scontri politici. I candidati che imparano a memoria il tuo numero. Le pizze in redazione durante lo spoglio. Le conferenze gongolanti dei nuovi sindaci. I comunicati rassegnati dei secondi arrivati. In questi dieci anni da giornalista ne ho seguite tante di campagne, eppure non sono mai entrato in una cabina elettorale. Non ho mai votato in vita mia. E non di certo perché sono iscritto al partito degli astensionisti. Non voto perché non posso. Non sono italiano. Non ancora. Nonostante io sia in Italia da diciotto anni. Praticamente una seconda maggiore età. Solo che questa è inutile perché non segna alcun passaggio. 
 
Potrei votare in Marocco, il mio paese d’origine. Ma chi li conosce i candidati?  Da quando ho compiuto i dieci anni, la terra che mi ha dato i natali è per me ormai la meta delle vacanze. La mia storia è quella di oltre ottocentomila ragazzi di seconda generazione. Nati o cresciuti in Italia ma sempre stranieri. Almeno fino a quando non sarà approvata la legge dello ius soli, approdata ieri al Senato, tra gli spintoni dei leghisti e le barricate dei forzanovisti. Per percorrere il tragitto tra la Camera e Palazzo Madama le ci sono voluti quasi due anni: la frustrante lentezza di un Paese che non vuole vedere il cambiamento. 
Non è una legge qualunque. È un atto di civiltà. Un riconoscimento a una generazione di orfani di cittadinanza. Perché spesso quei ragazzi crescono pensando di essere italiani. Di solito scoprono di essere stranieri quando devono salutare i loro compagni di classe che partono in gita perché a loro non serve un visto. E più ci vivono in Italia, più si rendono conto di non essere italiani per lo Stato.

Si laureano ma non possono accedere a tante professioni, si allenano ma non saranno mai dei militari. Possono essere tra i più preparati ma difficilmente potranno partecipare ai concorsi pubblici. Ogni loro viaggio deve essere preceduto dalla verifica se sia necessario o meno il passaporto italiano. Poco importa se sia una vacanza o un Erasmus fuori dalla Ue. Vivono sulla loro pelle ogni campagna elettorale, dalle circoscrizioni alle politiche, ma nessuno può avere il loro voto.
Diritti
"Anche noi siamo italiani: sì allo ius soli”
26/2/2017

Invece che davanti ai seggi, loro fanno le file davanti alle questure per rinnovare il permesso di soggiorno. Il documento per eccellenza degli stranieri. Con il rischio di perdere pure quello quando manca un contratto di lavoro o magari non c'è più l'appoggio della famiglia. C'è persino che si è ritrovato clandestino perché non era abbastanza ricco da permettersi un rinnovo. E non si trattava di delinquenti, ma di studenti universitari che sognavano un futuro in questo Paese. In tanti casi sono esclusi pure dal diritto di ricevere contributi assistenziali. Perché spesso il "prima gli italiani" è legge. 
 
Sono i miei diciotto anni in Italia. Tanti riconoscimenti, sicuramente, ma troppe rinunce. Sentirsi quotidianamente ospite del Paese che vorresti servire con passione e dedizione. Risultare una possibile minaccia anche quando nessuno può mettere in dubbio la tua integrazione. Sentirsi addosso quell'etichetta di "extracomunitario" perenne. Avere la certezza di non poter mai, nonostante ogni merito, ottenere un posto in prima fila. E questo vale anche per chi in Italia ci è nato e magari nel paese dei propri genitori non ci è mai stato. 
 
È vero, una legge per la cittadinanza c'è già. Se volessi potrei fare domanda e, forse, ottenerla. Dovrei solo compilare una decina di moduli, tornare nel paese dove sono nato e chiedere un certificato che dimostri che durante i miei primi dieci anni di vita non ho commesso alcun reato, autenticare tutto al Ministero degli Esteri, tradurlo e legalizzarlo al Consolato italiano e inviarlo agli Interni. Il tutto dopo aver pagato tasse e marche da bollo per diverse centinaia di euro. Trascorsi tre o quattro anni potrei ricevere la comunicazione per andare a fare il giuramento davanti a un sindaco che ho seguito in campagna elettorale. 
 
Con lo ius soli la politica ha l'ultima occasione per dimostrare di avere la lungimiranza per essere degna di rappresentare l'Italia vera, non solo quella elettorale. Se fallisse anche questa volta sarei molto indeciso tra fare domanda per diventare italiano, come voglio, o lasciare definitivamente l'Italia che non mi vuole.