Uno scrittore, una città. Piero Colaprico e il capoluogo lombardo per un racconto romantico e provocatorio

ll giovane K non ci aveva messo molto a capirlo. Milano era allora una città per masochisti di talento. Potevi essere sequestrato, ammazzato, drogato e ignorato, bastava trovarsi nel posto sbagliato per te al momento giusto per qualcun altro. C’erano i gangster che si sparavano da piazzale Cuoco a Porta Venezia, cioè alcuni chilometri di proiettili di mitra e calibro 38. C’erano i fascisti e i compagni che si sprangavano, accoltellavano, bombardavano tra loro, ma soprattutto contro gli altri.

L’eroina e la cocaina trasformavano persone comuni, migliaia di persone comuni, in morti viventi. «Quello è Nuvola Rossa, ha fatto un acido e non è più tornato», si diceva di un capellone con una tunica fetente che si aggirava in piazza Vetra. I ricchi, e Milano è una città dove i ricchi non mancano mai, facevano sparire i cognomi dai citofoni. La nebbia non copriva nulla, se non il cielo, del quale non si vedeva per settimane l’esatto colore: il «cielo milanese» ha lo stesso chiarore (e per mister K, ormai invecchiato, non è un caso, è solo una conferma) che oggi hanno gli schermi dei computer. Una sorta di latte elettrico, una pagina bianca che qualcuno deve scrivere, e perché non tu?

Erano gli anni Settanta, gli anni di piombo. Quando K arrivava a Milano, si portava dietro le letture, l’educazione e la salute, il liceo in una scuola militare della Marina, e quel poco ma essenziale di Sud che conosceva, e cioè la saggezza del Mediterraneo. Quella che dice di non sfidare mai gli dei invano, ma solo se necessario, sapendo che c’è un prezzo che poi si paga. O un sacrificio necessario al perdono. K non aveva un soldo e si definiva un camminatore. Uno che se ne va a piedi per le storie. Gli è stato detto più volte che con la sua voglia di andare avanti può calpestare, e ferire senza accorgersene, anche le persone che ama o rispetta di più. Non sembra così, a mister K, che l’ha capito a nemmeno 19 anni, nel cortile del Filarete, all’università Statale, che da allora è il suo luogo del cuore.
Illustrazione di Eric Pujalet-Plàa

Almeno una volta l’anno, anche se è laureato e i libri e i codici gli sono serviti nel cinque per cento degli articoli che ha scritto, torna su una panchina di largo Richini, pensa a tutti i chilometri a piedi che ha percorso da allora, poi entra nell’università e anche se non ha niente da vendere e comprare, nonostante non cerchi case da condividere, non dia e non prenda ripetizioni, guarda le bacheche degli annunci degli studenti. Anche in epoca di social sono rimaste pagine grandi e piccole, grafie razionali e malate, a righe, a quadretti, gialle, bianche, inchiostro bianco su fondo nero. E anche da quelle frasi, K crede di capire in quale direzione sta camminando la città: quella parte dell’onnipoli chiamata Milano che anche nel cortile del Filarete impara a scrutare il mondo, a prescindere da dove il mondo l’abbia fatto nascere.

Quando era giovane, K s’era sentito dare dal padre un piccolo viatico: «Un pasto e un letto qui ce l’avrai sempre, ma visto che non sei in Accademia a Livorno, non navighi sul Vespucci, invece stai qui in via Melzo, e per me l’aiuto finisce qua. Impara a cavartela…». Non era così facile per K comprare la camicia, i libri, godersi una serata con la fidanzata, mentre intorno scoppiava la Rivoluzione Apparente.
Illustrazione di Eric Pujalet-Plàa

K aveva ascoltato parecchie assemblee, parlato con qualche leader degli studenti e, decenni dopo, non si sarebbe stupito nel vedere quegli stessi «compagni» schierarsi dalla parte del potere. Quei suoi coetanei sembrava fossero entrati in un mondo di fantasia, non di politica reale. Di sogno, non di filosofia applicata alla vita. Di rabbia e di paura, di vendetta e di odio, non di costruzione e di pace: era come se gli dei del Mediterraneo avessero chiesto ai figli del boom economico di decimarsi, e quei figli del boom, gli amici di K, i suoi compagni e i numerosi estranei che camminavano con lui per Milano, se ne andavano cantando slogan incontro alla fine, alla morte, alla prigione, all’annullamento, un po’ simili ai soldati che odiavano.

Era forse per questo, e K l’avrebbe capito dopo molti anni, che all’epoca dei suoi studi, qualche mattina entrava nel cortile del Filarete, ma poi se ne andava. Subito. Saltava le lezioni e, senza pregare, entrava nella piccola cappella con le ossa, vicino alla chiesa di piazza Santo Stefano. Si chiama San Bernardino. Qualche volta, l’ha inserita in un giallo, ma per lui non ha mai avuto nulla di macabro. Ha, invece, un che di avvertimento: «K, non fare il pirla, a finire come noi ci vuole un attimo», suggeriscono i teschi.

Illustrazione di Eric Pujalet-Plàa

L’anno dopo il suo arrivo a Milano era stata scattata una delle foto più famose del tempo agro, quella dell’autonomo che spara ad altezza d’uomo: lo chiamavano il Terrone, K ne ha conosciuti parecchi che stavano là, con le armi, dall’una e dall’altra parte, sia con l’eskimo sia con la divisa. Li ha conosciuti perché, a distanza di anni, ha voluto indagare sulla propria giovinezza e sullo stile della città dove aveva immediatamente scelto di vivere, sentendola sua. È così che, parecchio tempo dopo, aveva scoperto di essere diventato piuttosto famoso in una piccola cerchia di amici per una battuta. Succedeva che, essendo casa di K ospitale quanto a cucina, grazie all’abilità indiscussa di mamma Sara, ma scarsa quanto a scrivanie, andasse a studiare a casa di una compagna di studi in via Mac Mahon.

Ci andava e tornava in tram, prendendo spesso l’ultimo, verso mezzanotte, per tornare in una Porta Venezia incandescente, frequentata da personaggi di ogni tipo. Oggi come allora, a un milanese intelligente basta passare due giorni lungo corso Buenos Aires per rendersi conto di quanto in fretta cambi Milano, e quindi l’Italia.

I primi magrebini? Le prime trans? Le prime puttane giovanissime? I primi cocktail? Le prime librerie con gli sconti abissali? I primi barboni senza tetto né legge? Le prime vetrine casual? I primi fast food? I primi morti ammazzati al ristorante durante una rapina? Il primo pesce crudo? I primi ristoranti etnici, a parte via Paolo Sarpi, dove c’era solo un cinese potabile, gestito da una bellissima signora? Qualsiasi cosa, persona o idea arrivi a Milano, passa per la zona di corso Buenos Aires: è successo persino ad Anis Amri, il primo terrorista internazionale ammazzato qui in Italia, dopo aver fatto la strage al mercatino natalizio di Berlino. È sul corso che ha preso il bus, quello che sostituisce la linea rossa del metrò, di notte, e che l’ha portato sino alla stazione di Sesto San Giovanni, dove ha incontrato due poliziotti cresciuti alla scuola milanese, che è «sempre giù il culo dalla macchina».
Illustrazione di Eric Pujalet-Plàa

Tra corso Buenos Aires e il Ponte della Ghisolfa si superavano vari confini e, in una città come quella, in cui se sbagliavi bar, scarpe, piazza, rischiavi davvero: via Mac Mahon diventò per K non il posto dove Francis Turatello detto Faccia D’Angelo sparava contro la macchina del bandito più fotogenico di tutti, Renato Vallanzasca, e di Rossano Cochis, ex parà, e nemmeno la strada che portava verso la periferia di piazza Tre Castelli e verso la zona dove comandava la ’ndrangheta dei Serraino, ma più semplicemente «La Gilda del Mac Mahon».


E puntò la scrittura di Giovanni Testori, che K conosceva molto meno di Sciascia, Buzzati, Marotta, ma che arrivava, con il dialetto, con la sua «prima persona» sballata, con il ritorno delle ossessioni, con la periferia, come un vento forte e freddo, un vento da montagna, addosso a quel giovane senza cachemire e senza macchina, che era nato nella provincia del Sud, che aveva studiato a Venezia e, ancorato a Milano, sotto i portici del Filarete, si domandava: ma chi è passato di qui? Chi ha fatto la storia d’Italia? Chi ci ha cambiato? Milano, città calamita, Milano città che si trasforma, che cresce, che si modella, che ti costringe, se quello che hai in mente è «fare», a muoverti. E muoverti significa scegliere. E andare avanti, “Tirem innanz”.

Infatti, alla sua amica, che lo teneva a cena, che organizzava feste per studenti, che a volte suonava per lui il piano - K era già fidanzato, con un’altra - dopo otto ore di studio, e un ragionamento cavillosissimo su chissà quale comma, disse semplicemente: «Scusami, preferisco vivere». Dopo tre mesi di studio assiduo, chiuse il libro, ringraziò e, letteralmente, sparì, per laurearsi senza fretta.

Il più bel lavoro che fece in quel periodo fu il venditore di giocattoli in corso Vittorio Emanuele. Non solo vendeva bambole e trenini, ma il suo compito era portare in banca i soldi del nero della cassa del negozio. Cifre pazzesche. Ormai è caduto tutto in prescrizione, ma K veniva pagato 10 mila lire (5 euro) al giorno, quindi 300 mila lire al mese, con circa 5, 6 mila si mangiava ancora la pizza con una birra, insomma, non andava malissimo, ma ogni mattina portava in banca le fascette delle banconote, l’ammontare era quello che avrebbe guadagnato in quattro o cinque mesi di sottopaga.

«Perché l’ha chiesto a me di portare tutti questi soldi?», chiese al padrone.
«Non hai la faccia di uno che ha tanti soldi in tasca e di sicuro non scappi per una simile miseria», rispose e andava più o meno bene finché a K non venne una di quelle idee che terrorizzavano suo padre. Gli emerse dal cervello mentre girava in tram e in bus, non disponendo di un’auto, avendo venduto la moto non più assicurata, mentre nelle strade si sparava, mentre veniva sequestro e ucciso Aldo Moro, mentre i Deep Purple cominciavano a passare di moda: poter guadagnare dei soldi facendo la guardia carceraria. K aveva attraversato il cortile del Filarete e s’era messo d’accordo per la tesi con Guido Galli, magistrato, professore bravissimo, con un sorriso angelicamente sarcastico e un ciuffo di capelli alla Beatles: «Lei è sicuro?», aveva domandato quell’uomo.
«Sicurissimo», rispose il giovane.
«Guardi che le carceri sono posti molto difficili, può essere complicato, si possono trovare anche altri argomenti, se proprio vuole laurearsi in criminologia, mi faccia sapere».

In effetti, quando K tornò per la seconda volta a San Vittore, e attraversò il cortile di piazza Filangieri, celebre per le canzoni della mala - La via Filangieri l’è tutta sassi, l’ho fatta ieri sera a pugni e schiaffi - aveva dimenticato uno dei documenti necessari. Un agente, meridionale, stupito dall’arrivo di uno studente che volesse fare «’sto mestiere di merda, uagliò», fece alcune telefonate, nessuno rispondeva, allora si alzò, per scortare K in una segreteria, dove, non appena la porta si spalancò, il giovane studente fece in tempo a vedere un agente che abbassava la manica della camicia. S’era appena fatto di eroina. Senza dubbio. La scena sconvolse K, perché Milano gli sembrava una città per masochisti, ma lui no, non lo era. Stava facendo dunque il servizio militare come marinaio quando il suo professore, Guido Galli, venne ammazzato dove l’aveva visto l’ultima volta, nel corridoio della Statale, vicino all’aula dove teneva le sue comprensibili lezioni.

Oggi K si ritrova in un mondo così diverso da allora, alle Varesine c’erano prati, case marce, la tristezza del circo, adesso piazza Gae Aulenti. Il Naviglio era quello della “ligera”, la mala spicciola, e di Bruno Brancher, che aveva imparato a scrivere in carcere, anche grazie a Soccorso Rosso, adesso è invaso da un esercito di giovani che sanno tutto dei cocktail e poco di Aristotele, eppure non si sente cambiato dallo studente che era. Voleva poche cose e le aveva abbastanza chiare dalla terza media: una era vivere scrivendo, e c’è riuscito. Gli basta. Tra una villa, una barca a vela e un marciapiede, se non hai paura, è meglio il marciapiede, questo lo ripete a chiunque voglia vivere scrivendo, o correre vivendo.

Piero Colaprico, 59 anni, è inviato di Repubblica e autore di diversi romanzi. Con questo suo racconto L’Espresso inizia una serie di ritratti di luoghi visti da altrettanti scrittori. Il prossimo racconto d'estate sarà firmato da Ornela Vorpsi che racconterà la Parigi erotica