Pedofilia, finanza, dottrina: ecco cosa sta frenando la rivoluzione di Bergoglio

Il cardinale Pell era stato messo a capo delle finanze ecclesiastiche. Ora, travolto dagli scandali, torna in Australia. La gestione trasparente del patrimonio ecclesiastico finora è fallita. Il tribunale contro i vescovi che coprono gli abusi non ha mai visto la luce. Così il cammino di Francesco è in crisi. Per la fronda ?di molti. Ma anche per i suoi errori

Per papa Francesco le ultime tre settimane non sono state semplici. Mentre a Roma si sfioravano i 40 gradi, dal piccolo appartamento di Santa Marta Bergoglio ha dovuto gestire una serie di emergenze che hanno messo sottosopra il Vaticano e la curia di Roma.

La sequenza è iniziata il 20 giugno, con le dimissioni forzate (e ancora misteriose) del revisore generale dei conti Libero Milone. Il 29 giugno la botta: il cardinale George Pell, il braccio destro del pontefice chiamato per mettere a posto le finanze e “moralizzare” la corrotta curia romana dopo gli scandali dell’era di Benedetto XVI e Tarcisio Bertone, è stato incriminato da un tribunale australiano per violenze sessuali su alcuni ragazzini. È stato sospeso dal suo ruolo per difendersi dalle accuse. Due giorni dopo, Francesco ha dato il benservito al numero uno della Congregazione della Dottrina della Fede, il cardinale conservatore Gerhard Ludwig Muller.

Il custode dell’ortodossia della dottrina è stato scaricato perché considerato troppo lontano dalle aperture progressiste del papa e troppo timido nella lotta alla pedofilia. Il primo luglio Bergoglio ha nominato il successore, promuovendo il vescovo Luis Ladaria: Repubblica e l’Espresso, il 3 luglio, hanno però scoperto che il gesuita ha coperto un prete maniaco, invitando al silenzio la curia locale «per non fare scandalo»; il pedofilo, dopo essere stato spretato, ha così potuto abusare indisturbato di altri dieci bambini.
Il cardinale Luis Ladaria Ferrer, da arcivescovo non denunciò un prete pedofilo

Gli episodi, slegati tra loro ma indirettamente connessi (Milone era stato scelto proprio da Pell), sono emblematici del momento delicato che sta vivendo il pontificato. Perché dimostrano come esista una distanza tra lo storytelling disegnato dal Vaticano per raccontare l’era nova di Francesco e la realtà, tra la rivoluzione annunciata dall’efficace propaganda della Santa Sede (e rilanciata dalla stampa di mezzo mondo) e le riforme effettivamente realizzate. Se come pastore di anime e leader carismatico di una Chiesa misericordiosa Bergoglio ha davvero rinnovato l’immagine del soglio petrino, facendo dell’ecumenismo e dell’attenzione agli ultimi il marchio di fabbrica del suo pontificato, la “rivoluzione” sembra aver fallito - almeno finora - sul piano pratico. A causa di nomine in parte sbagliate. Dell’opposizione di una curia riottosa al cambiamento. Ma anche di alcune scelte di governo fatte direttamente da papa Francesco. Che non sembra esser riuscito, a quattro anni dall’elezione, a realizzare compiutamente le riforme nel campo della dottrina, del contrasto alla pedofilia ecclesiastica, fino alla rivoluzione finanziaria, che sembra essere finita in un vicolo cieco.
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UNA RIVOLUZIONE MANCATA
Bergoglio fu eletto dal conclave anche per far piazza pulita degli scandali finanziari che funestarono il regno di Benedetto XVI e di Bertone, e soprattutto - queste le promesse - per trasformare il Vaticano in una casa trasparente, in una “Chiesa povera per i poveri”. George Pell fu chiamato per mettere ordine tra i più di cento enti economici e per moralizzare la corrotta curia romana. “Big George”, in tre anni, ha fallito la sua missione: ha chiamato allo Ior e nel Consiglio dell’Economia finanzieri come Jean-Baptiste de Franssu e il suo mentore, il maltese Joseph Zahra (i quali hanno proposto come prima mossa di creare una società d’investimento in Lussemburgo, bocciata direttamente dal papa), e nominato Libero Milone uomo di fiducia dei conti.
Il cardinale George Pell, incriminato per presunti abusi sessuali

Un gruppetto che ha cercato di concentrare nelle proprie mani tutto il potere, scontrandosi con tutti: dall’inutile Consiglio per l’economia guidato dal cardinale Reinhard Marx, passando per il segretario di Stato Pietro Parolin al presidente dell’Apsa (l’ente che gestisce l’immenso patrimonio finanziario e immobiliare del Vaticano) Domenico Calcagno, fino al numero uno di Propaganda Fide, Fernando Filoni. Battaglie a colpi di statuti modificati e di lettere private di protesta al Santo Padre, tirato dalla mozzetta da una fazione o l’altra. Risultato, l’impasse.

Se la confusione regna sovrana, la trasparenza resta una chimera: lo Ior, che inizialmente i seguaci di Francesco avevano ipotizzato addirittura di chiudere («Cristo non aveva una banca») ha annunciato di aver cancellato i conti laici, ma non ha mai consegnato la lista di ex clienti presunti evasori e riciclatori alle autorità civili italiane e degli altri paesi, mentre i conti illegittimi di alcuni clienti sono rimasti ancora aperti nel Torrione. Dell’obolo di San Pietro, a parole destinato ai poveri ma in grandissima parte girato ai cardinali e ai dicasteri, i fedeli non conoscono ancora la reale destinazione, per non parlare dei soldi regalati alle fondazioni vaticane e ai conti segreti dell’Apsa.
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PERCHÉ TANTA FIDUCIA A PELL?
Se diversi media italiani hanno evitato accostamenti con Bergoglio, è un fatto che Pell, il principale artefice del caos finanziario, è stato protetto dal papa senza se e senza ma. Una fiducia rinnovatagli anche dopo il possibile pensionamento per raggiunti limiti di età e anche dopo l’arrivo dall’Australia di notizie drammatiche sugli insabbiamenti nelle vicende dei preti pedofili. Francesco ha ridotto il suo raggio d’azione limitando i poteri della Segreteria dell’Economia, è vero. Ma non ha mai negato appoggio totale al suo “ranger”. «Il papa ha un carattere orgoglioso, e licenziare Pell sarebbe stata l’ammissione di un errore personale», spiegano alti prelati che vivono a Santa Marta.

Oggi in molti credono che Francesco si sarebbe dovuto muovere prima. Anche perché Pell, paradossalmente, è stata una figura chiave anche nella fronda che ha battagliato contro l’attivismo papale volto all’aggiornamento della dottrina cattolica in chiave progressista. È stato Big George, insieme ad altri dodici cardinali conservatori, a firmare una lettera che denunciava presunte “manovre” in seno al Sinodo sulla Famiglia affinché venisse approvato un testo bergogliano. È stato sempre lui, insieme alle porpore Muller, Carlo Caffarra e Timothy Dolan che guidavano la maggioranza conservatrice dei padri sinodali, a fare poi a pezzi, nel sinodo ordinario del 2015, le aperture portate avanti da monsignor Bruno Forte nei confronti degli omosessuali (i cui atti sono definiti dal Catechismo come «depravazioni, che non possono essere approvati»). Ancora oggi, a oltre un anno dall’esortazione apostolica “Amoris Laetitia” che permette ai vescovi di dare la comunione ai divorziati risposati (valutando caso per caso) i tradizionalisti non danno tregua al papa: la lettera firmata dai quattro cardinali sui “Dubia”, dietro cui si nascondono in molti di più, sta lì a dimostrarlo.

Se Francesco riesce a comunicare con i fedeli grazie al suo eccezionale carisma, se abbracci ecumenici come quello con il patriarca di Mosca Kirill resteranno nella storia, le spine più grosse riguardano la lentezza della lotta contro la pedofilia. La vicenda Pell (al netto delle tesi assolutorie di molti media italiani) è un passo falso di Bergoglio. Big George è stato messo sotto accusa per presunti abusi sessuali un anno fa, e Francesco, quando lo nominò tra il 2013 e il 2014 prima membro del C9, il gruppo dei nove cardinali che lo aiuta nella gestione della Chiesa universale, e poi come potente prefetto della Segreteria dell’Economia, nulla poteva sapere di quelle accuse.
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Ma che Pell non fosse l’uomo giusto da chiamare a Roma lo si sapeva da prima. Non solo era già stato processato per un caso di pedofilia su un chierichetto (fu assolto per assenza di prove, e non è escluso che il nuovo processo possa finire nello stesso modo), ma era stato anche indicato da decine di vittime come un insabbiatore seriale. Come si legge nei documenti della Royal Commission voluta dal governo di Camberra, e in decine di testimonianze dei sopravvissuti, l’ex vescovo di Melbourne era stato accusato di comprare il silenzio delle vittime; di aver provato a chiudere contenziosi con famiglie distrutte versando 30 mila euro; di aver sostenuto pedofili seriali come Gerald Risdale, suo ex compagno di stanza, accompagnandolo alle udienze in tribunale; di aver coperto pedofili dei Fratelli Cristiani; di aver aiutato economicamente, come dimostrano documenti diocesani, sacerdoti maniaci usciti di galera.
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Denunce che in Vaticano tutti conoscevo molto bene. Pell nel maggio 2010 era stato scelto da papa Ratzinger e Tarcisio Bertone come nuovo prefetto della Congregazione per i vescovi, ma un’istruttoria approfondita costrinse i vertici a cambiare idea: l’operazione saltò quando era in dirittura d’arrivo, e al posto di Pell viene nominato il canadese Marc Ouellet.

PEDOFILIA: PELL, MA NON SOLO
L’australiano, inoltre, non è l’unico alto prelato insabbiatore che Bergoglio ha promosso nel C9: suoi membri sono anche il cardinale cileno Francisco Errazuriz, che ha taciuto per anni davanti alle denunce contro padre Fernando Karadima (nel 2015 un allievo del sacerdote è stato nominato da Bergoglio vescovo di Osorno, nonostante la furiosa contrarietà dei fedeli e di parte del clero cileno), mentre coordinatore è Oscar Maradiaga. Nel 2002 il principale consigliere di Francesco, difendendo l’arcivescovo di Boston Bernard Francis Law, disse che sarebbe stato «pronto ad andare in prigione piuttosto che danneggiare» uno dei «miei preti», anche se abusatori. Sarà un caso, ma nella sua diocesi in Honduras l’anno successivo trovò riparo un sacerdote del Costarica che aveva violentato un bimbo di 10 anni, ricercato anche dall’Interpol. «Cose vecchie, di cui Francesco non sa nulla. La battaglia contro la pedofilia per lui è una priorità assoluta» rispondono i vaticanisti, mentre la stampa anglosassone è sempre più critica.
Il cardinale Óscar Rodríguez Maradiaga

LA CONTINUITÀ DEL SEGRETO TRA RATZINGER E BERGOGLIO
Se il papa ha usato parole di fuoco contro gli orchi con il collarino e i superiori che li coprono, paragonando gli abusi sui minori «alle messe nere», di passi in avanti concreti ne sono stati fatti pochi. Travolto dagli scandali americani ed irlandesi, nel 2010 Benedetto XVI allungò i termini di prescrizione del reato di 10 anni, inserì nei codici vaticani il reato di pedopornografia e la possibilità di procedere per via extragiudiziale nei casi più gravi (il pontefice può spretare gli accusati davanti a prove schiaccianti senza attendere l’esito del processo), ma non intaccò il dispositivo nefasto del «segreto pontificio» applicato ad ogni processo canonico e su ogni notizia di atti «contra sextum». Nemmeno Francesco ha cambiato le disposizioni: se durante i primi tre anni del suo pontificato i numeri di denunce “verosimili” (ben 1.200) arrivate da ogni parte del mondo è raddoppiata rispetto al periodo 2005-2009, ancora oggi ogni rinvio a giudizio, ogni dettaglio e ogni decisione del tribunale dell’ex Sant’Uffizio è protetto da perpetuo riserbo.

Chi parla rivelando i nomi dei pedofili e delle loro gesta, chi non custodisce il segreto, compie “peccato grave”, e va incontro a sanzioni severissime decise da una commissione disciplinare ad hoc. Sanzioni che comprendono il licenziamento, e persino la scomunica “latea sententiae”. Un obbligo al silenzio criticato duramente anche da due diverse commissioni delle Nazioni unite, che nel 2014 hanno spiegato come la Santa Sede «non ha riconosciuto la gravità dei crimini commessi, né ha preso le misure necessarie per affrontare i casi di abuso sessuale e per proteggere i bambini, né ha adottato politiche e normative che hanno causato la continuazione degli abusi sessuali da parte dei chierici e l’impunità degli autori (…). Risulta che dozzine di predatori sessuali siano ancora in contatto con bambini». Il Vaticano non ha voluto consegnare all’Onu le informazioni su tutti i casi di abuso, dando solo una serie di statistiche sulle condanne imposte da Ratzinger, e negando ai membri anche l’esito finale della procedura e dei processi portati avanti dalla Congregazione per la dottrina della fede. “Procedimenti segreti” che secondo l’Onu hanno permesso «alla stragrande maggioranza di abusatori e a quasi tutti coloro che hanno nascosto gli abusi sessuali di sfuggire ai procedimenti giudiziari degli Stati dove gli abusi sono stati commessi».

Era il febbraio del 2014. Se molti fuori e dentro le mura d’Oltretevere attaccarono il rapporto come «ideologizzato e anticlericale», oggi sappiamo che qualche motivo di doglianza era invece fondato. Gli esempi sono tanti, ma quello che vede protagonista il neoprefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Luis Francisco Ladaria, promosso una settimana fa da Francesco, è emblematico. Ladaria ha coperto, senza denunciarlo, un prete pedofilo che era stato ridotto in stato laicale per abusi sessuali, don Gianni Trotta. Ordinando per iscritto che la condanna canonica passasse sotto silenzio, per «non dare scandalo ai fedeli». Trotta, grazie all’acquiescenza del Vaticano e dei vertici della curia locale, ha così potuto continuare indisturbato a violentare minorenni: dopo essere stato costretto a lasciare la tonaca è infatti diventato allenatore di una squadra di calcio giovanile, e in due anni ha molestato indisturbato una decina di bambini in un paesino vicino Foggia.
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Nonostante scandali a ripetizione, incredibilmente il Vaticano non ha ancora emesso norme né “motu proprio” pontifici che obblighino i vescovi e presuli a denunciare preti pedofili direttamente alla giustizia civile. Grazie ai Patti Lateranensi del 1929, i vescovi possono infatti evitare di andare da polizia o magistrati dei loro sottoposti. Il Parlamento italiano, nonostante le richieste dell’Onu al nostro Paese, non ha mai preso in considerazione la modifica dell’articolo del trattato: solo lo sparuto gruppetto dei deputati di Possibile legati a Pippo Civati hanno fatto una mozione, ma nessun altro partito li ha seguiti. A oggi non è nemmeno calendarizzata per una votazione.

L’opzione del silenzio è dunque ancora in vigore, e costringe Francesco e i suoi innovatori a non collaborare pienamente con la magistratura ordinaria: due anni fa il il pm di Cremona Roberto De Martino, che ha incriminato per pedofilia un pezzo grosso di Comunione e Liberazione come don Mauro Inzoli, ha chiesto inutilmente le carte del processo canonico che si era tenuto mesi prima alla Santa Sede. Alla rogatoria internazionale, la Segreteria di Stato ha posto un netto rifiuto, evidenziando - a febbraio del 2015 - che la vicenda è «sub segreto pontificio». Per la cronaca, il sacerdote era stato spretato da Ratzinger, ma Francesco (nonostante il parere contrario della Congregazione) aveva accolto il suo ricorso, restituendogli a sorpresa tonaca e stipendio e condannandolo solo a una “vita di preghiere”. Solo qualche giorno fa - dopo la condanna in primo grado del tribunale di Crema a oltre 5 anni di carcere - il pontefice ha cambiato frettolosamente idea ed è tornato sui suoi passi, riducendo nuovamente Inzoli in stato laicale. Il rischio di un danno d’immagine era ormai enorme. «All’inizio qualcuno di Cl lo aveva mal consigliato», sussurrano imbarazzati dal Cupolone.

LE PROMESSE NON MANTENUTE
«Francesco avrà sbagliato alcune nomine, ma ha fatto cose rivoluzionarie creando la Commissione per la tutela dei minori, il tribunale per i vescovi insabbiatori rei dei “reato d’abuso episcopale” e firmando il motu proprio “Come una madre amorevole”», replicano gli osservatori più bergogliani. Tuttavia un fact checking delle tre iniziative dimostra che la distanza tra annuncio e risultato è significativa: la Commissione guidata dal cardinale O’ Malley non ha infatti alcun potere d’indagine ma solo consultivi, mentre i membri si sono incontrati in seduta plenaria pochissime volte riuscendo a organizzare seminari, formulare suggerimenti per le Conferenze episcopali e lanciare una giornata di preghiera per le vittime. Non è un caso che dalla Commissione se ne siano andati polemicamente le due vittime che Francesco aveva chiamato a farvi parte: Peter Saunders (ha definito la Commissione «un’operazione di marketing di Bergoglio») e Marie Collins, che ha invece criticato le forze curiali «che non vogliono vera trasparenza e imbrigliano la riforma». Anche se mai nominato, l’obiettivo dei suoi strali era il cardinale Gerhard Muller, fino a una settimana numero uno dell’ex Sant’Uffizio.

Il tribunale contro i vescovi che coprono i maniaci, annunciato nel giugno 2015, a oggi non ha mai visto la luce. Nel 2016 il motu proprio “Come una madre amorevole”, dedicato al tema della pedofilia, non ne fa alcun cenno. Nel documento Francesco elenca i nuovi meccanismi che gli permetteranno di cacciare prelati che coprono gli abusi in maniera più rapida. Novità interessanti, che secondo il Vaticano evitano ogni ambiguità, ma che le associazioni delle vittime ritengono del tutto superflue: il papa, da monarca assoluto, ha sempre avuto il potere di allontanare su due piedi i vescovi occultatori. Non è un caso che Francesco, se da un lato ha sempre difeso i suoi fedelissimi più chiacchierati chiedendo maggior garantismo ai giornalisti, abbia invece rimosso prima dell’emanazione delle nuove regole quattro alti prelati, sospettati di essere degli occultatori. Per la cronaca, solo uno era già stato condannato da una corte penale.

«La rivoluzione andrà avanti più spedita di prima», hanno preconizzato gli osservatori delle cose sacre commentando in positivo il congedo del cardinale Pell. Lo sperano in tanti. Anche perché il rischio e che le parole e le promesse, come ha scritto il Washington Post in un’editoriale, «rischiano di trasformarsi in nuvole di fumo».

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