Prima si puntava sulla distruzione del vecchio per ricostruire. Ora si premiano il riutilizzo e la lotta all’inquinamento. E le aree degli hutong  stanno vivendo una metamorfosi  che racconta molto di come stanno cambiando la metropoli e le sue comunità

Esisterebbe un modo sicuro per avere il cielo azzurro per più di un giorno di fila in mancanza di venti forti a Pechino, ovvero fermare il traffico delle auto private e chiudere tutti gli immensi impianti industriali che cingono con un abbraccio mortale la capitale cinese.

In quel caso, l’aria diventerebbe improvvisamente respirabile, il cielo si tingerebbe di colori in tono con le suggestive visioni degli antichi pittori di corte, le persone si muoverebbero per strada con un impercettibile, ma evidente, buon umore, movimentando quella che è una delle metropoli più interessanti del continente asiatico.
Nelle giornate normali, una delle abitudini più diffuse è ormai quella di scrutare appena svegli una delle tante applicazioni specializzate nell’indicare la percentuale di inquinamento e polveri sottili nell’aria e considerare come normalità avere una mascherina da indossare una volta per strada.
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Nebbie artificiali, grattacieli che divorano il cielo, traffico infernale lungo strade gigantesche, architetture avveniristiche, quartieri residenziali antichi ridotti a poche aree protette, grande industria, sono la cartolina attuale della capitale cinese ma, contemporaneamente, anche l’immagine di un quadro che sta cambiando molto rapidamente con la probabilità di consegnarci una metropoli differente nell’arco di un solo decennio.
La scommessa è dettata da una situazione ambientale drammatica, che non conosce alternative se non quella di una desertificazione progressiva dei territori a Nord e di un peggioramento irreversibile della qualità dell’aria, con conseguenza sociali, economiche e politiche irricevibili per il governo cinese.

La presenza di una cintura d’industria pesante alle porte di Pechino, cresciuta enormemente in questi decenni, unita all’impennata delle automobili private, aumentate del 300 per cento tra il 1998 e il 2013 e attualmente stimate in quasi 6 milioni di veicoli su una popolazione complessiva di più di 21 milioni, sono alla radice della condizione atmosferica attuale, che premia la metropoli cinese come la capitale mondiale dell’inquinamento.

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Tutto questo si era combinato con un’urbanizzazione aggressiva, condizionata da una crescita demografica che dagli anni Sessanta a oggi ha tenuto costantemente il passo del 20 per cento, producendo la situazione attuale.
La capitale cinese in questi decenni di crescita economica vertiginosa ha accumulato una serie di primati che esemplificano i caratteri e alcuni paradossi del Paese. La voracità costruttiva, la straordinaria capacità produttiva, l’amnesia verso una storia millenaria e i suoi manufatti minuti, la fame di crescita, l’imponente investimento nell’educazione e nella ricerca tecnologica, la durezza del neo-capitalismo, l’abbassamento di una qualità estetica che un tempo rivestiva ogni aspetto della vita si sono mescolati insieme, producendo le attuali metropoli cinesi, frutto di un gigantismo senza uguali, e una progressiva perdita di identità dei luoghi.

Tra gli anni Ottanta e Novanta, mentre la maggior parte degli architetti del mondo guardava alla Cina come a una Shangri-La dove ogni forma capricciosa era permessa e anche sollecitata, arrivavano le prime denunce pubbliche sulla progressiva distruzione di quel patrimonio edilizio diffuso e anonimo chiamato hutong. Non era solo una forma di capitalismo aggressivo a generare i nuovi paesaggi, ma anche la fuga di migliaia di persone da abitazioni considerate per niente salubri, umide, poco igieniche e non moderne.
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Gli hutong sono le viuzze strette e i vicoli che cingono le siheyuan, tradizionali case a corte realizzate per ospitare uno o più nuclei familiari a seconda della classe sociale d’appartenenza. Abitualmente, l’aggregazione di questi edifici compone un isolato comunemente definito come hutong, diventando così la base nella costruzione di tutte le città antiche cinesi. Nel caso di Pechino un sistema molto evoluto di questi quartieri residenziali circondava la Città Proibita con una densità che aumentava a seconda della distanza fisica dal palazzo dell’imperatore. Con la Rivoluzione culturale gli hutong vennero parcellizzati per un numero crescente di famiglie, le corti interne cannibalizzate, lasciando libero solamente lo spazio per il grande albero che tradizionalmente sta al centro. Abbandono e insalubrità fanno da contraltare a una vita comunitaria vitale e complessa, dove le soglie tra pubblico e privato sono sfumate, i servizi igienici sempre in comune e il sistema di strade e corti un vero e proprio flusso continuo di bambini, anziani, merci, odori, macchine e motorini che popolano continuamente questi villaggi urbani.

Alla distruzione indiscriminata della prima fase è seguita un’azione di salvaguardia. Oggi le aree degli hutong, salvate dal governo cittadino con un piano di conservazione varato nel 2002 e distinto in 25 aree della città antica, stanno vivendo una metamorfosi molto interessante, che racconta molto di come stanno cambiando Pechino e le sue comunità.

Il valore immobiliare di queste case tradizionali sta aumentando a dismisura, producendo in alcuni hutong un processo di espulsione delle categorie sociali più fragili, ma in realtà Pechino sta generando una condizione più complessa, che trasforma questa metropoli in un laboratorio urbano e sociale molto avanzato e interessante da osservare.
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L’azione avviata dal governo è duplice: da un lato, guardare agli hutong come un modello sociale e fisico da potenziare senza perdere la popolazione originale e dall’altro, contemporaneamente, mettere mano a un processo radicale di smantellamento degli impianti industriali nella fascia esterna della metropoli, trasformandoli in enormi aree pubbliche e adibite al verde.

Sullo sfondo una scelta politica importante, annunciata lo scorso anno dal Comitato centrale del Partito comunista cinese e dal Consiglio di Stato contro ogni architettura «smisurata, esterofila e stravagante», per la costruzione, invece, di edifici «appropriati, economici, a basso impatto ambientale e piacevoli per chi li guarda». Questa svolta epocale si è innestata su un dibattito diffuso sulla natura dell’architettura cinese contemporanea che sta portando una nuova generazione di progettisti a formulare un modo diverso di costruire. Gli hutong di Pechino sono così diventati un banco di prova strategico, su cui combinare tradizione e contemporaneità, oltre che la delicata relazione tra visione pubblica e investimenti privati.

Dashilar Project, una piattaforma immobiliare d’iniziativa privata che sta operando nell’omonima area degli hutong a Nord-ovest della Città Proibita, è sicuramente il caso più maturo da osservare oggi. In questa grande area abitata soprattutto da popolazione locale si sta attivando un’azione che ricorda la tecnica dell’agopuntura: alcuni siheyuan ridotti in cattive condizioni vengono acquisiti per essere trasformati in asili, centri per l’arte, atelier e gallerie, piccoli ostelli con progetti affidati ad alcuni tra i migliori architetti emergenti di Pechino.

Si tratta di interventi sensibili e minuti, attenti alla scala del luogo, capaci di ripensare le materie tradizionali come il mattone scuro e il legno con grande capacità poetica, ma soprattutto sono luoghi pensati per essere attivamente attraversati dalla vita di quartiere. Forse il caso più clamoroso è la biblioteca per ragazzi e centro d’arte Micro Yuan’er dello studio Zao/standardarchitecture, che ha appena vinto il prestigioso Premio Aga Khan per l’Architettura. Un luogo in cui la forza del nuovo intervento e la qualità degli spazi tradizionali convivono generando uno spazio giocoso, abitato da decine di bambini e abitanti del quartiere, che lo vivono come l’appendice naturale della propria casa.

Gli hutong di Pechino, per vastità e complessità, sono oggi un laboratorio sociale e progettuale trasversale che mescola esperienze evolute come Dashilar, forme di vera espulsione sociale per fare posto a negozi alla moda e residenze di lusso, studi di artisti e designer che convivono con micro ristoranti e bar alla moda, insieme a comunità, residenze e attività tradizionali che popolano ogni spazio utile di questi luoghi.

Si tratta di esperienze che pongono il tema del riuso al centro di ogni azione, in pieno contrasto con la logica precedente, che puntava alla distruzione e al nuovo a tutti i costi. Questo principio sta alla base della rigenerazione di alcuni dei maggiori e più inquinanti complessi industriali che vengono progressivamente dismessi e allontanati dal territorio metropolitano. Si è cominciato alla fine degli anni Novanta con la trasformazione di un imponente impianto bellico nel 798 Art District, la più grande area dedicata all’arte contemporanea di tutta la Cina. Adesso è il turno dell’impianto siderurgico del Gruppo Shougang, sospeso con le Olimpiadi del 2008 e oggi chiuso per fare posto al Quartiere Generale dei Giochi Invernali del 2022. Le vecchie strutture di cemento sono integrate con spazi contemporanei per il lavoro e lo sport, mentre un grande parco sarà attivo in meno di due anni. È ancora presto per capire se si tratta di una reale e diffusa scelta ambientalista e strategica che coinvolgerà le metropoli cinesi. Ma una cosa è certa: una precisa scelta di campo da parte di questo Paese potrebbe spostare equilibri decisivi per il destino dell’intero pianeta.