La missione nel paese africano. Lo scontro con i francesi sui cantieri navali. Così il premier  a tempo è  costretto ad  andare in trincea, e il governo deve fare squadra

Ora qualcuno ricorda che fu proprio lui, all’epoca mite ministro degli Esteri, oggi ancor più mite presidente del Consiglio, ad avvertire che in Libia, «in un quadro di legalità internazionale», l’Italia per fermare l’avanzata dell’Isis era pronta a «combattere».

Era il 13 febbraio 2015, Paolo Gentiloni era stato nominato da qualche mese alla Farnesina dal governo Renzi, l’uso di quella parola in un’intervista a SkyTg24 che annunciava un impegno militare dell’Italia scatenò un diluvio di polemiche. Anche perché, in quel momento, in Libia non esisteva un governo riconosciuto dalla comunità internazionale, l’inviato Onu Bernardino Leon faticava a comporre la tela di Penelope dell’accordo tra le fazioni libiche, la premiership di Fayez al-Sarraj partì a stento solo otto mesi più tardi, si temeva che nel frattempo la Libia sarebbe diventata una nuova, gigantesca base dell’Isis, in un momento di successi militari degli jihadisti.
Paolo Gentiloni con il leader libico al-Sarraj

Oggi, due anni e mezzo dopo, la situazione è mutata: Islamic State è in ritirata ovunque sul piano militare, abbandona i territori controllati, in Siria, in Iraq. Ma in compenso la Libia è tornata a essere un terreno di conflitto per i paesi europei, il simbolo di una disunità che attraversa il mare Mediterraneo e arriva alle Alpi, al confine con la Francia. E il presidente del Consiglio italiano, guerriero molto riluttante, è costretto a mostrare la faccia feroce nell’estate 2017. Per dimostrare che l’Italia c’è, nella stagione in cui ritorna protagonista una categoria sottotaciuta negli ultimi anni: gli interessi nazionali.
politica estera
Crisi internazionali, l'Italia è sola e senza Europa
7/8/2017

È la guerra di Paolo, una battaglia navale su un doppio fronte. Il primo è quello dell’operazione militare nelle acque territoriali libiche, con l’invio di una nave logistica e di un pattugliatore e poi di un mototrasportatore costiero votato dal Parlamento con compiti di sostegno tecnico e operativo alle navi libiche. Il secondo fronte è il conflitto, guerreggiato a parole, a colpi di comunicati, dichiarazioni, photo opportunity e strappi, il linguaggio felpato della diplomazia e quello brutale dei rapporti di forza, che contrappone l’Italia alla Francia del presidente Emmanuel Macron sulla questione dei cantieri navali Stx, con la nazionalizzazione della quota francese e il rifiuto di lasciare all’italiana Fincantieri la maggioranza del capitale.
illustrazione di Duluoz

La stessa Francia che sulla questione libica ha fatto irruzione sulla scena con il vertice del castello di La Celle Saint Cloud tra il premier al-Sarraj e il nemico comandante dell’Esercito nazionale libico Khalifa Haftar, con Macron in mezzo alla stretta di mano, una postura studiata per ripetere la posizione strategica occupata da Bill Clinton nella foto che immortalò lo storico incontro tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat il 13 settembre 1993.

A completare il parterre degli invitati c’era il nuovo inviato speciale dell’Onu per la Libia, il libanese Ghassan Salamé. L’Italia è stata presa di sorpresa, la visita di al-Sarraj a Roma il giorno dopo è suonata come una riparazione diplomatica, l’invio delle navi della Marina nelle acque libiche assomiglia alla rivendicazione di una presenza in un paese alla vigilia di una svolta politica che potrebbe di nuovo segnare un indebolimento del ruolo italiano a vantaggio di quello francese.
Paolo Gentiloni con Emmanuel Macron

C’è un terzo fronte aperto per il governo Gentiloni, quello interno. Il pressing del governo sulle Ong che operano tra la Sicilia e la Libia per il soccorso in mare dei migranti per accettare un codice di condotta più restrittivo ha prodotto il no dell’organizzazione umanitaria più grande e prestigiosa, Medici senza frontiere. La mancata firma di Msf, critica con una serie di restrizioni che «rischiano nella sua attuazione pratica di contribuire a ridurre l’efficienza e la capacità del sistema di ricerca e soccorso» dei profughi, indebolisce l’intera operazione: «l’aver rifiutato l’accettazione e la firma pone quelle organizzazioni non governative fuori dal sistema organizzato per il salvataggio in mare, con tutte le conseguenze del caso concreto che potranno determinarsi a partire dalla sicurezza delle imbarcazioni stesse», ha avvertito il ministero dell’Interno.

Le conseguenze annunciate dal Viminale sono il divieto di attracco ai porti meridionali e controlli serrati, per non dire di peggio, sul personale a bordo e sulla sicurezza delle imbarcazioni, ma è ancora difficile prevedere se ci saranno sanzioni e quali. Così come non si può preventivare quale sarà il perimetro di azione delle navi italiane spedite in Libia. «È una missione bilaterale, dipende dalle richieste dei libici», rispondono i vertici militari a chi chiede delle regole di ingaggio. Il primo obiettivo è fermare gli scafisti e i trafficanti di uomini nel Mediterraneo, ma resta senza risposta la domanda su dove saranno portati i migranti eventualmente soccorsi dalle navi italiane: riportati in Libia? O trasferiti in Italia?

Sul doppio fronte nelle stesse giornate Gentiloni ha schierato i massimi gradi del suo governo. Su quello libico, il ministro degli Esteri Angelino Alfano e della Difesa Roberta Pinotti. Su quello della guerra industriale su Stx il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e dello Sviluppo economico Carlo Calenda. Cui va aggiunto, come super-ministro impegnato a tessere una tela diplomatica in Libia e a condurre la regia del tavolo delle trattative con le Ong, il ministro dell’Interno Marco Minniti. Fin dai primi giorni del suo incarico l’ex sottosegretario ai servizi segreti si è dato come obiettivo il contenimento degli sbarchi, in una situazione di collasso delle strutture di accoglienza sul territorio italiano. Fino a un mese fa il 2017 è stato l’anno record degli arrivi, quasi 95mila. Ma nell’ultimo mese, in coincidenza con il giro di vite annunciato con le Ong e in vista dell’intervento militare italiano in Libia, gli sbarchi si sono dimezzati: 10.781 a luglio contro i 23.552 di un anno fa. Al Viminale pensano che sia il primo risultato della paziente opera di dialogo di Minniti con le fazioni del Fezzan che anticipa un nuovo vertice in programma a Roma con i rappresentanti delle comunità libiche.

Completa la squadra italiana in campo, anche se in un ruolo e in una sfera d’azione completamente diversa, il più importante e strategico operatore economico sul terreno libico, l’Eni. Nei giorni più caldi l’amministratore delegato Claudio Descalzi ha fatto su e giù tra l’Italia, la Libia e l’Egitto. Ha incontrato al-Sarraj, il capo della compagnia nazionale libica Noc Mustafa Senalla, vicino a Haftar, e il premier egiziano Sherif Ismail, per discutere del mega-giacimento di gas Zohr, vicino al completamento dei lavori dopo solo due anni dalla scoperta. È la politica estera parallela dell’Eni, o meglio complementare perché condotta in piena sintonia con il governo, tradizionale in paesi come Libia e Egitto in cui l’ente petrolifero è presente fin dagli anni immediatamente successivi alla sua fondazione, alla metà o alla fine degli anni Cinquanta. Con una priorità assoluta: evitare che dal caos libico nascano tentazioni di divisione del paese, che avrebbe effetti letali per gli interessi italiani e positivi, invece, per la Francia e per le sue compagnie petrolifere e per l’Egitto, il grande sostenitore di Haftar.

La difesa degli interessi nazionali è la nuova trincea di combattimento del governo Gentiloni, chiamato anche nel campo più delicato a dimostrare la sua esistenza in vita e la sua capacità di reazione. Il mite Gentiloni, catapultato a Palazzo Chigi come premier provvisorio, destinato a durare poche settimane, si trova così nell’estate 2017 a gestire una partita da cui dipenderanno molti equilibri futuri. La pace e la stabilità della Libia sono la premessa per contenere gli sbarchi sulle coste siciliane anche in chiave di politica interna: se si fallisce su questo fronte, come sa bene Minniti che fu il primo a dire che l’azione del governo Gentiloni avrebbe dovuto caratterizzarsi per una svolta sulle politiche di sicurezza e dell’immigrazione, le conseguenze saranno catastrofiche e la campagna elettorale del 2018 sarà egemonizzata dalla Lega di Matteo Salvini.

A Palazzo Chigi continua a operare come consigliere per lo scacchiere libico un ex uomo Eni come Leonardo Bellodi che alla Libia ha dedicato un lungo articolo sull’ultimo numero di “Limes” (6/2017) con una conclusione che non lascia spazio a dubbi: «Il paradosso del governo al-Sarraj, riconosciuto a livello internazionale ma illegittimo secondo le leggi vigenti in Libia, va risolto prima possibile per il bene del popolo libico, degli Stati confinanti e per la sicurezza internazionale».

Il governo italiano manda le navi formalmente su richiesta del governo libico, ma è consapevole che con il generale di Tobruk Haftar bisognerà parlare (e lo ha già incontrato ad aprile l’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone, unico titolare di una sede diplomatica occidentale presente a Tripoli) se non si vuole lasciare alla Francia la gestione della nuova Libia tramite l’inviato dell’Onu Salamé.

Il derby con la Francia sul dossier Fincantieri va risolto entro la fine di settembre, quando ci sarà il vertice Italia-Francia, all’indomani delle elezioni in Germania, l’evento politico più importante dell’anno in Europa dopo le elezioni presidenziali francesi. Per quella data la guerra di Paolo dovrà essere portata a compimento. È lo strano destino di un governo e di un premier che tutti percepivano come debole e destinato a breve durata e che ora è chiamato a vestire la divisa e i panni dello stratega per custodire la dignità dello Stato nell’epoca in cui ritornano prepotenti gli interessi nazionali. Di cui il sistema politico e le leadership che si preparano a un’altra campagna, quella elettorale, dimostrano scarsa consapevolezza. Ma questa sarà un’altra guerra.