Lo scontro per l’indipendenza non è un gioco. Perché può moltiplicare le spinte secessioniste in Europa. E perché ci mostra come i rapporti tra autonomie regionali, Stato nazionale e Unione Europea non è fissato per sempre, ma mutevole e revocabile

Lo scontro fra Barcellona e Madrid ci ricorda quanto precari siano gli attuali assetti geopolitici in Europa. Per troppo tempo noi europei, italiani inclusi, abbiamo rimosso o declassato a folklore le istanze separatiste che variamente percorrono i nostri Stati nazionali, neanche questi fossero dati di natura, non formazioni storiche perennemente revocabili. Il caso catalano, comunque finisca - e la battaglia intorno al referendum per l’indipendenza ne è solo l’inizio della fase decisiva - ha il merito di costringerci a riflettere sul grado di legittimazione delle nostre istituzioni nazionali. E sulla possibilità che in un futuro visibile vi si producano fratture insanabili, generatrici - non necessariamente per via pacifica - di altri Stati. Paradossale processo di frammentazione all’ombra dell’Unione Europea.

Anzitutto, ogni caso ha una sua storia e una sua geografia. La partita fra Spagna e Catalogna è antica e peculiare. Non è per accidente che l’inno spagnolo non abbia un testo. Ogni volta che si è tentato di scandire in versi la Marcia Reale, qualcuno ha avuto da ridire. L’entusiasmo necessario a cantare tutti insieme “viva la Spagna!” - castigliani e baschi, catalani e andalusi, galiziani e aragonesi - non è caratteristica diffusa fra i cittadini spagnoli. Il re, in teoria figura unificante, è in realtà divisivo, tanto da venire fischiato in pubblico (qui una parte di responsabilità l’ha il capo del governo, che lo ha esposto all’umiliazione). Da tempo i sondaggi indicano che una parte consistente degli spagnoli vorrebbe affidare a un referendum la scelta fra monarchia e repubblica, fattore non ininfluente anche nella disputa fra Madrid e Barcellona.

Inoltre, la costituzione stessa è incerta nel definire l’esistenza di uno o più popoli in Spagna. Infine, l’indipendentismo catalano è ormai marchio globale grazie alla fama del Futbol Club Barcelona, la cui classica, eterna sfida con il Real Madrid Club de Fútbol ha evidente sapore geopolitico. Espresso nel motto stesso del Barça - “més que un club” (“più che una squadra”, in catalano) - e nelle pubbliche dichiarazioni di indipendentismo di alcune delle sue stelle passate e presenti, su tutti il suo carismatico, celeberrimo ex responsabile tecnico, Pep Guardiola. Grazie al calcio, il catalanismo è parte della comunicazione quotidiana in Cina o in Marocco, in Germania come in Russia.

La lezione più interessante di questa sfida per noi altri europei è il rapporto fra autonomie regionali, Stato nazionale e Unione Europea. I lati di questo triangolo, che per i teorici dell’europeismo classico dovrebbero virtuosamente convivere e legittimarsi reciprocamente, nel Regno di Spagna hanno finito per rivelarsi assai asimmetrici. Dopo la fine del franchismo, si poneva la questione di come tenere democraticamente insieme popoli che, almeno nel caso basco e in quello catalano, tendevano a considerarsi nazioni, con tanto di partiti politici che esprimevano tale sentimento. Di qui la concessione dell’autonomia, che ha aperto una competizione fra le regioni per l’accesso a tanto privilegio, peraltro declinato in modo diverso. Alla fine ha prevalso la logica del “caffè per tutti”. Sicché baschi e catalani, che dovevano essere “ispanizzati” per questa via, non hanno vissuto con entusiasmo l’autonomismo generalizzato.

La Catalogna, poi, ha cavalcato il movimento regionalista europeo. Ovvero l’idea che l’Europa non dovesse essere una forma di integrazione sulla scala degli Stati nazionali, ma su quella regionale. Concezione particolarmente forte in Baviera, altra “nazione nella nazione”, capofila di questo peculiare europeismo in salsa regionale, tanto da concepire velleità secessioniste quando la Repubblica Democratica Tedesca entrò nella Germania Federale, declassando così il rango del Libero Stato di Baviera nel contesto della Bundesrepublik allargata.

La mancanza di un chiaro e condiviso progetto di integrazione europea ha così prodotto un doppio effetto: la delegittimazione dello Stato nazionale, considerato dall’europeismo federalista più un problema che una risorsa, se non l’idolo da abbattere; e allo stesso tempo l’incapacità di produrre un’Europa integrata, federale o confederale. Nello spazio intermedio fra il nefando Stato nazionale e l’improbabile Federazione Europea sono cresciute, e continuano a crescere, le ambizioni di autogoverno di alcuni territori/nazioni.

Dalla Scozia alla Catalogna o alle Fiandre, per tacere dei nostri venetisti o padani, l’idea di potersi separare dallo Stato di appartenenza in nome di un’“Europa dei popoli” o delle regioni non ha mai cessato di germogliare. Dal Regno Unito alla Spagna, dal Belgio alla stessa Italia, i secessionismi/indipendentismi (a seconda che li si osservi dal centro o dalla periferia che si vuole separare) vivono la loro grande stagione.

La frammentazione è favorita dalla crisi di legittimità delle istituzioni democratiche, che destabilizza entità geopolitiche apparentemente consolidate. Qui si pone una questione fondamentale: fino a prova contraria, lo Stato nazionale eterogeneo, almeno in Europa, è stato e rimane il contenitore della democrazia liberale. È possibile frammentare gli Stati più o meno liberaldemocratici senza liquidarne i princìpi fondativi affermati negli ultimi due secoli? Il principio di autodeterminazione dei popoli è senz’altro affascinante, ma chi decide dell’esistenza di un popolo e quindi del suo diritto a governarsi da sé? Se un pezzo di Spagna o di Regno Unito vuole abbandonare lo Stato di appartenenza, la decisione appartiene ad esso o anche al resto dei cittadini del paese in questione? E siamo sicuri che questo processo possa avvenire pacificamente?

C’era una volta la retorica dell’europeismo, che immaginava un destino storico che avrebbe dovuto accomunarci. Oggi di quell’afflato rimane il ricordo, o la nostalgia. Si può obiettare all’unità d’Europa - in confini da determinare - fondata sull’integrazione fra Stati nazionali. Ma che tale unità possa o debba passare per la disintegrazione di tali Stati è tesi davvero acrobatica. Meno improbabile che una sequenza di secessioni possa scatenare conflitti e pulsioni xenofobe. Il vantaggio presunto di pochi si muterebbe in tragedia per molti.