Sono bengalesi ed egiziani, arrivati a Roma con un sogno in tasca. Per dieci, dodici ore al giorno restano nei piccoli alimentari, spesso ci dormono, cercando di sopravvivere alle regole del mercato. Ecco le loro storie di ordinaria alienazione

Quando Hassan (nome inventato) ha deciso di buttarsi nel commercio aveva molte speranze. Di crescere innanzitutto, e poi di guadagnare abbastanza soldi per vivere dignitosamente e tirare dritto fino alla vecchiaia. Ai suoi occhi – di giovane bengalese da tre anni in Italia – Roma rappresentava un'enorme opportunità. Ne era così convinto che ha aperto un minimarket rifornito di tutto. Un frigorifero, la risma di scaffali sulle pareti e un'insegna luminosa. “Avevo messo da parte un po' di soldi lavorando come cameriere in un ristorante cinese e facendo il magazziniere – racconta sull'uscio del negozio – e con un prestito ho acquistato l'attività da un mio connazionale”.

Ha scartabellato fatture, ha trattato con i grossisti, ha esaudito le richieste dei pochi clienti, fino a quando le speranze si sono sgretolate sui rotoli di carta da scontrino ancora impacchettati. “Ho buttato tutti i miei risparmi – dice sbuffando – per quattro mesi non ho visto un guadagno. Con quello che mi entra, riesco a malapena a coprire le spese e non mi rimane niente”. L'affitto del negozio, 1.300 euro, il condominio, 80 euro ogni mese, e le bollette da pagare, oltre agli innumerevoli furti. Entrano – soprattutto italiani – pretendono birra gratis, spintoni e urla, e alla fine scappano con qualche bottiglia.

Anche Ishan è uno dei tanti bengalesi arrivati in Italia con il sogno europeo nelle tasche. Ha sgobbato nelle cucine di tavole calde, nei depositi della periferia di Roma e ha aperto un minimarket nel quartiere di San Lorenzo. Come molti dei suoi connazionali, incasellati tra le quattro mura di un negozio, circondati da pacchi di pasta, flaconi di detersivo e bottiglie di vino.

C'è chi li descrive come appendici di un presunto apparato di riciclaggio criminale, chi come agenti del disordine, marginalità sociale e paccottiglia a buon mercato, chi invece come conseguenza delle trasformazioni sociali in corso. Senza dubbio però i minimarket sono un fenomeno economico in espansione. Secondo i dati della Camera di Commercio, a Roma sono 664 i piccoli alimentari gestiti da cittadini bengalesi, 700 se si guarda alla provincia. Su 30.850 imprese a conduzione bengalese registrate sul territorio nazionale, il 65,5 per cento si concentra su commercio e trasporti. Per una comunità che conta 39mila cittadini nel Lazio, il commercio sembra essere l'unica fonte di reddito e l'unico sbocco occupazionale. Ma a quali condizioni i nuovi schiavi della vendita al dettaglio reggono l'urto della concorrenza a ribasso?

“Lavoro molte ore al giorno, dalle 9 del mattino fino all'una di notte le serrande rimangono aperte” racconta Ishan, buttando un occhio sulla strada deserta. Per risparmiare vive in un appartamento condiviso con altre cinque persone provenienti dal Bangladesh. Il suo è un negozio di vicinato con prezzi bassi e competitivi, che cerca di rispondere alle richieste di una nuova clientela con tempi e ritmi diversi. Lavoratori precari, giovani studenti e migranti. Tra la mercanzia esposta, l'alcol va per la maggiore, ma con le ultime ordinanze non lo possono vendere oltre un certo orario.

Queste attività sono considerate profanatrici dell'ordine pubblico e del decoro urbano. Per questo molte amministrazioni hanno approvato delle delibere che ne vietano l'apertura nei centri Unesco. Come a Roma, dove ad aprile l'Assemblea capitolina ha ratificato un Regolamento con cui si dice stop a nuove aperture nelle zone di pregio storico, di nuovi minimarket, friggitorie, compro-oro, lavanderie self-service, a tutela degli stucchi e dei capitelli degli antichi rioni. Gli esercizi “messi al bando” sono diversi, ma in molti casi il loro identikit corrisponde in modo puntuale a quello dei negozi gestiti da cittadini stranieri, perlopiù bengalesi.

Andrea Coia, consigliere 5S e Presidente della Commissione Commercio, commenta così l’ordinanza: “Noi non facciamo distinzione di nazionalità, stiamo parlando di tipologia di negozi. Se questi piccoli alimentari (...) sono troppi, siano essi in centro o in periferia, bisogna dire che sono troppi. Oggi il Regolamento guarda alla Città Storica, ma non escludo che ci possano essere domani dei regolamenti che intervengano sulla saturazione nelle periferie di determinate tipologie (...). Ma oggi l’esigenza e la criticità è sulla Città Storica, perché è qui che sono i turisti e queste attività aprono per la maggioranza laddove ci sono turisti”.

La ragione è nota: al centro i guadagni sono più alti e in una città come Roma, si punta sul cliente straniero, come è logico per un qualsiasi negoziante. Ma i minimarket rappresentano un attore economico nel panorama capitolino del commercio al dettaglio o un elemento di degrado da normalizzare e da espellere? “Penso che sia un fenomeno da governare e per governarlo - dichiara il consigliere - dobbiamo dialogare con la Camera di Commercio, che (...) può aiutarci nella gestione di questa tipologia di imprese con la Regione e con lo Stato”. Ma a preoccupare l’amministrazione, non sono soltanto le vetrine fatiscenti e le saracinesche impolverate, ma anche la qualità e la provenienza dei prodotti in vendita. “Non è il fenomeno dei piccoli alimentari che ci preoccupa, ma come viene esercitato, quali prodotti vengono venduti”. Il Regolamento infatti contempla delle deroghe per attività di eccellenza. “Se mi arriva, ad esempio, un biscottificio di qualità e mi chiede di aprire un’attività in centro, allora la giunta procederà con la deroga”.
I biscotti di Ishan non hanno nessun bollino di eccellenza, ma gli garantiscono da (sopra) vivere. “Guarda – indicandone un pacco– io lo compro ad 1 euro e 20 centesimi e lo vendo ad 1 euro e 80 centesimi, ma il supermercato è più conveniente e lo vende alla clientela allo stesso prezzo del mio fornitore”.

Gareggiare con i prezzi della Grande Distribuzione (Gdo) è praticamente impossibile. Le liberalizzazioni degli orari di lavoro introdotte dal Salva Italia del governo Monti, hanno irreggimentato le gabbie del mercato, dando vita a store h24. Qui, al calar della notte, un esercito di lavoratori assunti con contratti atipici, appaltati a cooperative, entra in scena tra corsie e scaffali smaltati di bianco.

Francesco Iacovone, sindacalista dei Cobas Lavoro Privato che da anni segue l'evoluzione del settore, fornisce una panoramica sulla questione. “Il settore del commercio alimentare è veicolo delle nuove forme di sfruttamento. Questo succede dappertutto. A mio avviso, il secolo delle fabbriche è finito. Il nostro è un Paese deindustrializzato e i profitti si fanno nella distribuzione e circolazione delle merci, essenzialmente comprimendo il costo del lavoro, l’unica variabile su cui tagliare, con il consenso della politica”. L’ultimo rapporto annuale dell’Istat parla chiaro: dal 2008 al 2017 il saldo è stato positivo “per le professioni esecutive nel commercio e nei servizi” con 860mila lavoratori in più, mentre l’industria ha perso 895mila unità. Cassieri, camerieri e facchini sono i nuovi operai.

Pur di sopravvivere alla concorrenza del sottocosto targato gdo, nei minimarket si vive per lavorare. Mullah è un dipendente in un alimentari del centro. Alla domanda “hai un contratto?” storce la bocca, abbassa lo sguardo e abbozza un sorriso. “Piccolo piccolo” risponde, mimando il gesto con le dita. Percepisce poco più di 500 euro mensili. “Quando posso invio soldi alla mia famiglia nel mio Paese”. E non è il solo. Secondo il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, sono 126 milioni gli euro che partono dalla provincia di Roma, destinazione Bangladesh. Lavora ininterrottamente non avendo alternative. “Del resto qui, posso fare soltanto questi lavori”.
“Nel commercio stiamo assistendo ad un processo di etnicizzazione del lavoro – dice Iacovone - Ma anche di segregazione occupazionale per molti stranieri, costretti al giogo della precarietà e del lavoro nero. La filiera dello sfruttamento ha molte catene: i braccianti sikh nelle campagne dell’Agro Pontino, nigeriani, maliani e senegalesi nelle catene della logistica, filippini e peruviani come scaffalisti nelle notturne della Grande Distribuzione”.

Appena è arrivato in Europa, Alì non avrebbe mai immaginato uno scenario simile. Scappava dal Bangladesh con una laurea in ingegneria. Prima in Germania con la lingua da imparare, le tradizioni e le maniere teutoniche da metabolizzare. Poi in Italia, senza che il titolo di studio gli venisse riconosciuto. Adesso ha 26 anni e da dieci mesi risiede nel nostro Paese. “Lavoro come cameriere in un ristorante senza contratto”. Guarda il telefono, seduto dietro il bancone di un minimarket incastrato tra le palazzine. “La mia ragazza lavora qui. Siccome sta male, la sostituisco io, sennò non mangiamo. Devo realizzarmi ma non ho gli strumenti, vorrei mettere su una famiglia”.

Secondo l'Occasional paper pubblicato da Banca d'Italia a marzo, gli immigrati hanno dato un grande apporto alla crescita nazionale: dal 2001 al 2011, il Pil è salito addirittura di 2-3 punti. L'aumento della popolazione giovane, in età da lavoro (20-64 anni), è stato possibile solo grazie al flusso migratorio in entrata, che ha dato una forte spinta agli indici demografici. Tuttavia, secondo i dati del rapporto, tra circa 40 anni, neanche i migranti, costretti a fare lavori poco redditizi, riusciranno a frenare la crisi produttiva del Belpaese.

“Ricordate il cascherino? – domanda Iacovone – il garzone dei mercati o dei fornai, che portava la spesa a casa, con cui ci si perdeva in chiacchiere? Nel corso degli anni, i minimarket hanno colmato questa assenza nelle nostre comunità” causata dai colossi della distribuzione e dalla precarizzazione delle vite di tutti.