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Istanbul va a Mosca

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Le frizioni con l’Europa e l’asse con Putin. Così gli equilibri dell’area sono sempre più fragili

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A piazza Taksim è stato demolito il Centro culturale Ataturk: un altro schiaffo di Erdogan a un simbolo della laicità. Conosco il posto, a ogni tornante recente della storia turca sono passato da qui. Nel 1994 quando il sindaco Tayyip Erdogan, allora sconosciuto, già voleva ricostruire le vecchie caserme ottomane; nel 2003 quando mi esplose sulla testa una delle bombe che fecero saltare il consolato britannico; nel 2013 ero qui per le manifestazioni di Gezi Park, tra un turbinio di manganellate e lacrimogeni. Di fianco a Taksim sono passati i jihadisti per disintegrare la discoteca Raia e mettere le bombe allo stadio del Besiktas, qui sopra hanno volato i jet la notte del tentato golpe del 15 luglio 2016. La mattina dopo, un banale carroattrezzi rimuoveva l’ultimo tank dei golpisti. Meno di un anno dopo il fallito colpo di Stato, qui festeggiavano, nell’aprile 2017, la vittoria nel referendum che dava pieni poteri al presidente. Questa piazza è un totem irrinunciabile per tutti. Qui convergono i militanti dell’Akp di Erdogan ma anche dell’opposizione che per farsi coraggio in vista delle elezioni politiche e presidenziali del 24 giugno strimpellano “Bella Ciao”. Se Erdogan vince, resta fino al 2023, centenario della Repubblica fondata da Kemal Ataturk, nata dalla fine di un Impero che aveva dominato Mediterraneo, Medio Oriente e Balcani.

Taksim racconta una sconfitta epocale che ha cambiato i destini di popoli e nazioni. La caserma di Taksim fu al centro di una battaglia storica. Il 31 marzo 1909 l’antica guarnigione di Halil Pasha si ribellò ai Giovani Turchi che avevano detronizzato il sultano Abdul Hamid II. I ribelli occuparono la città con lo slogan ”Vogliamo la sharia”, la legge islamica. Ancora oggi è controverso se si trattò di una rivolta islamista o di un complotto ordito da agenti provocatori. Il risultato fu che vinsero i Giovani Turchi e la caserma venne rasa al suolo. Per i kemalisti, i seguaci di Ataturk, questo è il giorno della vittoria dei progressisti sui reazionari; per gli islamisti l’inizio di cento anni di predominio dei militari e dei laici: nelle opposte interpretazioni c’è, in sintesi, l’odierna polarizzazione della Turchia.

Fino all’ascesa dell’Akp nel 2002 la Turchia è stata dominata dai laici e dai golpe dei militari; poi è toccato ai tradizionalisti e ai religiosi. L’intuizione di Erdogan è stata quella di dare rappresentanza politica a questa Turchia rimasta ai margini diventata protagonista con le “Tigri anatoliche”, le imprese esportatrici, il motore del boom economico ma anche quelle più indebitate. C’è poco da scherzare oggi con il debito delle aziende turche: è quasi tutto a breve e coinvolge le banche europee fino al collo. Debiti che con il crollo della lira turca costano sempre di più. Persino Erdogan ha dovuto piegarsi ad aumentare i tassi, pur continuando a tuonare contro le agenzie di rating e la “lobby dei tassi d’interesse”.

Il Reìs piace ai nostri sovranisti, meno al Fondo monetario di Christine Lagarde, considerata una nemica della nazione alla stregua dei curdi. In realtà Erdogan è detestato dagli europei - sotto ricatto perché lo hanno investito del ruolo di custode di tre milioni di profughi siriani - ma anche dagli americani che hanno in mano Fetullah Gulen, l’imam che secondo Ankara è la mente del tentato golpe del 2016.

Il nocciolo della questione è che la Turchia oscilla spericolatamente tra Est e Ovest come nei momenti più turbolenti della sua storia. Vuole gli F-35 americani ma sfidando le sanzioni Usa a Mosca ordina i missili S-400 di Putin, e ha commissionato alla Russia la più grande centrale atomica del Mediterraneo (sarà costruita nella provincia di Mersin, di fronte a Cipro) oltre a puntare sul Turkish Stream, il gasdotto che doveva realizzare l’Eni, fatto saltare da Bruxelles e Washington dopo la crisi Ucraina.

Sta cambiando una storia di 70 anni. Alla fine della Seconda guerra mondiale, durante la quale era rimasta neutrale, Ankara si era schierata con gli Stati Uniti nella competizione della Guerra Fredda. I turchi, infatti, vennero aiutati dagli americani nel campo economico e della difesa. Questo era il dispositivo della “Dottrina Truman”, il presidente che in un discorso del 1947 teorizzò la necessità di assistere Grecia e Turchia per impedire che diventassero Paesi filo-sovietici.

Nel 1952 il Paese entrò poi a pieno titolo nell’Alleanza Atlantica creata dagli Usa per contrastare la minaccia di invasione dell’Urss. Successivamente a questa scelta gli Stati Uniti schierarono le testate nucleari in Turchia, considerata il bastione sul fianco Sud-orientale e l’avamposto di un eventuale attacco a Mosca. Oggi in Turchia ci sono 24 caserme Nato e i missili Usa puntati sia contro Mosca sia contro Teheran, oltre alla base di Incirlik che i turchi concedono agli americani assai di malavoglia. Del resto nel 2003 Ankara si oppose anche al passaggio delle truppe Usa in Iraq.

Dagli anni Settanta, inoltre, la Turchia si è impegnata a condividere i principi dell’Unione europea e dal 2003 ha avviato le riforme per l’adesione. In realtà la Turchia è stata ipocritamente tenuta in sala d’aspetto ben sapendo che né Berlino né Parigi l’avrebbero mai accettata.

Dal tentato golpe in avanti la Turchia ha dimostrato un evidente allontanamento dal mondo occidentale costruendo invece proficue relazioni con la Russia e l’Iran. La Russia ha bisogno di un vicino importante come la Turchia per avere un facile accesso al Mediterraneo, sia in termini commerciali che militari. Inoltre il triangolo Russia-Turchia-Iran è indispensabile per una soluzione della questione siriana. Mosca e Teheran sono sotto sanzioni occidentali, e la Turchia è anche uno sbocco per i loro affari.

È l’antico gioco dei Tre Imperi, russo ottomano e persiano: si sono scontrati per secoli ma possono darsi una mano quando serve. L’avvicinamento alla Russia e all’Iran potrebbe in futuro allontanare Ankara dalla Nato, per entrare in un’opposta coalizione, pur restando tatticamente agganciata all’Alleanza e all’Europa. Lo dimostra la guerra siriana. In un primo momento la Turchia spingeva per la destituzione di Assad, poi ha cambiato posizione pur di eliminare un embrione di Stato curdo alla frontiera siriana. Dentro e fuori i suoi confini, la Turchia è in preda all’eterna tensione tra Oriente e Occidente.

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