Siamo entrati in questo archivio immenso, unico in Italia: 540 mila registrazioni, 43 anni di eventi politici e giudiziari registrati a tappeto - prima dello streaming, prima del grillismo

È l’antidoto all’invasione del selfie, del franco coloniale, del Lino Banfi che è in noi. La difesa all’assalto dell’iper presente. La paziente e ossessiva opera di impilatura, giorno dopo giorno, della cronaca di un Paese: file audio contro i piatti di pastasciutta su Instagram, microfoni contro le sfilate di divise altrui, fino a totalizzare un archivio audio-video da oltre 845 mila pezzi e 540 mila registrazioni che rappresenta - forse più di qualsiasi altro - l’Italia degli ultimi quarant’anni. Eccola, Radio Radicale. Antica come la prima Repubblica, all’avanguardia al punto che in lei ha creduto pure Google, che le ha finanziato con 420 mila euro un progetto sperimentale che si concluderà l’anno prossimo. Tentacolare, in qualche modo: anomala, soprattutto. Forse è per questo che il governo gialloverde ha deciso di tagliarle i finanziamenti - come farà con altre realtà non allineate, dall’Avvenire al Manifesto.

Andreotti e Brunetta 
Fastidiosissimo sarebbe però scivolare nella retorica, perché l’unica cosa assente dai corridoi della radio è appunto la retorica. C’è invece tutto il resto, all’ultimo piano in un palazzo accanto alla stazione Termini, proprio dove una volta ai tempi di Roma città aperta la terribile Banda Koch interrogava e torturava. Una minutaglia frenetica che si fa mondo. Gente che entra e esce in una totale orizzontalità dei ruoli, fogli e foglietti appiccicati sulle bacheche, manifesti, fili elettrici, avvisi, spaghi, carrelli, armadi, divieti di fumo si suppone infranti, ripostigli traboccanti di audiocassette, video, nastri, scatole di cartone, scritte a penna. L’effigie di un Renato Brunetta in versione beato, e sotto la scritta “ovunque proteggi” (il parlamentare azzurro è l’autore di uno degli emendamenti salva radio) e, non distante, una robusta immagine di Andreotti.

Dice: e che ci fa Andreotti? «È stata proprio Radio Radicale a smentire Andreotti. Una delle rare volte, forse l’unica, in cui è accaduto». La voce fonda della spiegazione viene dalla stanza all’angolo, una scrivania da un mare di carte dietro cui è sepolto Massimo Bordin, pilastro della radio e di Stampa e Regime, la rassegna stampa alla quale il premier Giuseppe Conte ha dedicato sontuosi aggettivi («articolata, dettagliata ed efficace», ha detto prima di concludere che i finanziamenti, comunque, non arriveranno - Bordin ricambia definendolo «il nostro acuto presidente del Consiglio»). Ecco l’aneddoto: «Era il 1984, alla festa dell’Unità ci fu un dibattito sulla Germania in cui Andreotti si era lasciato andare alla citazione: “La Germania la amo talmente che mi piace tantissimo avercene due, invece che una”. Naturalmente la cosa non fece piacere ai tedeschi, e si scatenò una polemica. Andreotti smentì, disse: “Ma quando mai ho detto una cosa del genere!”, sicuro del fatto suo, anche perché il dibattito era in tarda serata e la battuta era alla fine dell’incontro, quindi figuriamoci se c’era qualcuno che l’aveva ascoltata. E invece c’era Radio Radicale. Ecco, anche questo vuol dire essere servizio pubblico».
Un confronto tra Emma Bonino e Massimo D'Alema moderato da Massimo Bordin

Da Salvini al Csm
Quell’Andreotti del settembre 1984 è tra i 2.117 interventi del sette volte presidente del Consiglio che si trovano sul sito della radio. Ma, per una volta, il divo Giulio è uno dei tanti. Accanto a 43 anni di lavori parlamentari. Accanto a Matteo Salvini che spunta per la prima volta a fine 1998 in una riunione del “Blocco padano per Milano” in cui dice che «a mio giudizio il regime totalitario è anche quello italiano», e la seconda a fine 1999, al Quinto congresso della Lega, quando proclama: «Con o senza Formentini, la Padania la faremo, sicuramente». Sicuramente. Accanto a un Matteo Renzi che nel 1997 a un convegno del Ppi esclama: «Io più che morire democristiano vorrei vivere popolare». Accanto all’unico intervento in Parlamento di Eduardo De Filippo, conservato dalla radio che fino ai primi anni Novanta è stata l’unica a registrare i lavori di Camera e Senato. Accanto al Paolo Borsellino che in un incontro organizzato dall’Msi a Bologna, molti anni prima di essere ammazzato, disegnava la sua riforma della giustizia. Accanto a 38 discorsi di fine anno dei Capi di Stato (il più breve, quello famoso di Francesco Cossiga: cinque minuti). Accanto ai processi - da Cucchi a Rostagno, da Ilva alla Strage di Bologna - che fino a pochi anni fa era soltanto questa radio a registrare, una seduta alla volta, senza saltarne una altrimenti non ha più senso. Accanto alle sedute del Csm, di cui è tutt’ora l’unica a tenere traccia.

«Le sedute del Consiglio superiore della magistratura le registriamo dalla metà degli anni Ottanta. Loro non hanno nulla, solo noi. Tant’è vero che negli ultimi Plenum ne hanno pure parlato, o si sono posti il problema: se loro chiudono, come facciamo? Dovremo provvedere», racconta Guido Mesiti, uno degli otto che lavorano all’archivio. «Sui processi, capita che magistrati e avvocati vengano da noi: perché tutt’ora, nei tribunali, non fanno gli indici delle udienze. Quindi, se vuoi per esempio ritrovare un interrogatorio in centinaia di ore, come fai?». E ci sono stati casi in cui la registrazione di Radio Radicale ha fatto fede rispetto a quella del tribunale - che magari era incomprensibile, o saltata. Episodio limite, racconta Mesiti, quello attorno al presunto bacio Riina-Andreotti: «La procura di Palermo mandò la polizia ad acquisire materiale perché Andreotti era stato in quel periodo in tutta una serie di Feste dell’Amicizia, organizzate dalla Dc: volevano avere gli orari precisi dell’inizio effettivo della registrazione per capire se Andreotti avesse avuto un margine nei suoi spostamenti».
Oggi, grazie alla tecnologia, il mare di 540 mila registrazioni è conservato (quasi tutto) in un unico server (con un altro di back up), mentre la copia fisica è divisa tra un hangar ai confini della Capitale e gli armadi della redazione. Tutto nasce, in fondo, da una modalità proto-grillina. Racconta Bordin: «Quando la radio nasce, insieme con l’ingresso dei radicali in Parlamento, il colpo mediatico di Pannella è quello di rappresentarsi come un deputato che accetta di sedersi in uno studio radiofonico: e il primo che gli fa una domanda, e lui gli risponde. Il che non era affatto una cosa scontata, assolutamente, rispetto alla forma di comunicazione politica dell’epoca». Oggi, l’equivalente sarebbe lo streaming. Allora, era l’onda delle radio libere, quelle della comunicazione diretta, che oggi si è spostata sui social.

Servizio pubblico
Su quella spinta, Radio Radicale ha cominciato a registrare tutto, a tappeto: e nel giro di qualche anno si è ritrovata a diventare servizio pubblico, pur non essendolo tecnicamente. Racconta Bordin: «Noi abbiamo detto subito chi eravamo, come la pensavamo. E siamo arrivati al paradosso che una radio di partito faceva più servizio pubblico del servizio pubblico, perché il servizio pubblico era più di partito che la radio di partito. Questa è la verità». Più imparziale della lottizzata Rai, insomma.

In questi 43 anni, in effetti, la radio ha effettuato una specie di copia della realtà, della somma degli eventi politici, istituzionali, partitici, giudiziari. Una copia maniacalmente esatta. Il leader radicale Marco Pannella, del resto, s’arrabbiava se qualcuno si azzardava anche solo a sfumare gli applausi. «Se sono tre minuti di applausi, bisogna registrarli tutti e tre», ecco il diktat. Racconta Paolo Chiarelli, l’amministratore delegato: «Noi facevano l’integrale, mentre la Rai ha sempre solo conservato i servizi montati». Quella cosa, che allora sembrava solo mania, oggi è una ricchezza che non ha pari. Ogni giorno, gli eventi vengono registrati in giro per l’Italia e messi subito sul sito, poi nel giro di un giorno indicizzati, controllati, archiviati. Ancora Chiarelli: «Siamo partiti su cassetta, una fortuna perché da lì è stato più facile. Dai primi anni Duemila abbiamo digitalizzato, adesso abbiamo un sistema automatico - sviluppato insieme a una società che partecipa alla creazione degli stenografici della Camera - che opera una trascrizione multimediale dell’audio. In più grazie al finanziamento di Google, stiamo elaborando un sistema che estrarrà automaticamente i concetti chiave di una registrazione, sul modello di una agenzia di stampa. Insomma stiamo arrivando al compimento del lavoro iniziato nel 1976, quando ci dicevano che facevamo uno sforzo inutile. Stiamo creando un sistema che rende completamente fruibile tutto». Sul modello Einstein: tutti sanno che qualcosa è inutile, finché non arriva qualcuno che non lo sa, e la rende un patrimonio.
Antonio Russo, inviato di Radio Radicale ucciso a Tblisi mentre indagava sulla guerra in Cecenia

I numeri
Adesso, però stanno per arrivare i tagli. Già è operativo il primo: dal Mise per il 2019 sono stati erogati 5 milioni di euro, invece dei soliti 10. «E lì arriverà il nostro vero impoverimento. Nostro, e di chi non ci potrà più ascoltare», racconta il direttore Alessio Falconio. Alle pareti, dietro di lui, ci sono enormi cartine dell’Italia, divisa per zone. In ogni zona c’è un cerchietto, più grande, più piccolo, di colori diversi. «Sono i 250 impianti dai quali trasmettiamo. Una rete che tra affitti e utenze costa da sola 3,7 milioni l’anno». Tutta la radio, compresi i 52 dipendenti e 20 collaboratori che rappresentano un terzo delle uscite, e i 2 milioni necessari a coprire gli eventi, costa circa 12 milioni di euro, dice Chiarelli. Costi che oggi sono coperti da un lato dal contributo della Legge sull’editoria (4 milioni) e dell’altro con la convenzione erogata dal ministero dello Sviluppo economico, 10 milioni lordi, 8,2 netti (esiste dal 1994, fu decisa dal governo Ciampi, l’ultimo della prima Repubblica, e attuata da quello di Silvio Berlusconi). Adesso, il governo ha dimezzato la convenzione, per il 2020 è previsto il taglio completo dei fondi dell’editoria.

Questo cosa significa? Dice Chiarelli: «Fino a maggio siamo coperti, perché il governo ci ha rifinanziato per 5 milioni, poi dovremo trovare una soluzione: o si chiude, o si cambia, si vedrà quale può essere la via d’uscita, ci stiamo lavorando. Ma, per come sono ripartiti i costi, lavorare con cinque milioni in meno è impossibile. Non è che puoi chiudere metà rete, o tagliare metà redazione, o eliminare l’archivio. E allora, come abbiamo detto ai Cinquestelle, tanto vale dirlo subito: se ritenete che questa cosa sia inutile, chiudetela. Scegliete. Ma non si può partire dai tagli».

Quale mercato?
Veramente il premier Conte, seguito a ruota dal vicepremier Luigi Di Maio, ha detto che «bisogna aprirsi al mercato», i tempi sono cambiati. «Ma quale mercato? È come dire a una biblioteca di aprirsi al mercato delle librerie», spiega Falconio: «Il servizio pubblico non ha mercato, questo è evidente. Il servizio pubblico ha un mercato suo. Quale inserzionista pubblicitario potrebbe mai accettare che gli spot non vadano in onda perché, improvvisamente, si deve stravolgere il palinsesto per mandare in onda un’audizione in commissione Finanze del ministro Tria?».

Vuol dire che la radio chiuderà? Bordin rifiuta di farsi prendere da sentimentalismi: «Questa radio ha combattuto per la propria sopravvivenza sin da quando è nata, e su più fronti, quindi nessuno si illuda, non verremo sopraffatti da crisi di panico. Crisi di noia, semmai: noia da combattimento. I Cinquestelle considerano i media tradizionali un nemico, e che possiamo farci? Mica possiamo cambiargli la testa, è un problema loro. D’altra parte, quelli che avevano le leve del potere in passato, mica erano amici nostri. Anzi, l’attacco più serio alla sopravvivenza di Radio Radicale venne nel 1996 dal governo Prodi, quando fecero quella buffonata di Rai Parlamento». Beh, ma non si è mai parlato di azzerare i finanziamenti. «Il governo di adesso è più diretto perché sono più rozzi, solo per questo. E lo dicono pure», spiega Bordin: «Hanno riqualificato a livelli da asilo infantile la categoria della obiettività della stampa, che poi si riduce alla questione che la stampa per essere obiettiva non deve parlare male del governo. E vabbè, questa è una cosa vecchia come il mondo: vogliono una stampa asservita. E lo vogliono rozzamente. Senza spazi di agibilità. Vediamo se riescono. Del resto, Radio Radicale non credo che gli piaccia, come non gli piace il Manifesto, come non gli piace l’Avvenire. Sono forme anomale, forze che possono portare allo spariglio. Quindi se possono farli fuori sono contenti». Così, semplicemente? «Le cose, in genere, sono semplici».

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