La nipote dell'agente uccisa nella strage di via D’Amelio. Il volontario dei vigili del fuoco. E molti altri, quasi tutti laureati. Hanno passato con ottimi voti il primo esame per diventare agenti ma sono stati fermati in corsa da un emendamento voluto dalla Lega che ha abbassato l’età. E ora danno battaglia al Tar

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Emanuela sogna da sempre la divisa di agente della polizia, quell’uniforme per cui sua zia, di cui porta lo stesso nome, ha perso la vita mentre prestava servizio a via D’Amelio il 19 luglio 1992. Emanuela è stata a un passo dall’indossarla, quella divisa, perché è tra i 455 “idonei con riserva” che hanno partecipato al concorso per assumere 1.148 allievi agenti della polizia di Stato, indetto a maggio 2017 e aperto a candidati sia civili che militari. Chiamata mai arrivata: un emendamento fortemente voluto dalla Lega ha cambiato i requisiti richiesti per accedere al corso di formazione e ha messo fuori dalla graduatoria Emanuela e tante altre ragazze e ragazzi che come lei avevano superato le selezioni con ottimi punteggi. Tutti loro attendono con fiducia la sentenza definitiva del Tar del Lazio, che però arriverà solo nell’aprile del prossimo anno. Nel frattempo, hanno creato una chat su whatsapp dove si scambiano notizie e informazioni: una piccola e agguerritissima comunità, intenzionata ad andare fino in fondo.

La nipote della prima donna agente di scorta nella storia della polizia, medaglia d’oro al valor civile per aver dato la vita a 24 anni mentre proteggeva il giudice Paolo Borsellino, ha oggi 26 anni: troppi secondo i nuovi requisiti richiesti per vestire la divisa della zia-eroe: «Mi sento vittima di un’ingiustizia che va a ledere la persona nella sua integrità. Non voglio pensare che in uno stato di diritto il legislatore possa cambiare le norme in corso d’opera. Ho iniziato a partecipare alle commemorazioni in onore di mia zia sin da piccola; è da allora che vedo la polizia come una grande famiglia di cui voglio entrare a far parte. Quello che è successo ha fatto crescere in me la voglia di combattere in nome della giustizia».

Emanuela è mamma di una bambina di 4 anni e sa bene che l’uniforme è anche un rischio, che talvolta indossarla può far paura: «L’importante è saper gestire la paura, non farsene condizionare. Per me questo è il coraggio, altrimenti sarebbe incoscienza». Emanuela vuole ripercorrere i passi di sua zia e quelli di suo padre, anche lui poliziotto. E sa già che quella divisa, addosso a lei, sarà un po’ più pesante.

Antonio Fasci fa l’istruttore di karate a Caserta; 27 anni, ha una laurea in giurisprudenza: «La passione per questa divisa? Nasce molti anni fa, quando ogni mattina al mio risveglio vedevo mio padre abbottonare la giacca di ordinanza per andare al lavoro. La mia è una vocazione, una spinta inevitabile. E vedermi escluso dalla graduatoria per una mera questione di età mi provoca tanta amarezza».

Il padre è commissario di polizia. Ha una causa aperta con il Ministero per un blocco degli scatti di carriera, ma quando vede il figlio perdersi d’animo lo esorta a non mollare: «Mi sostiene molto nei momenti difficili», racconta Antonio, «non nascondo che è dura restare in questo limbo di promesse e di chiacchiere. Dalla politica arrivano rassicurazioni (a riguardo, è stato depositato un emendamento al Senato, ndr), ma al momento è tutto un “forse”. L’iter giudiziario sembra darci ragione, purtroppo è lungo e potrebbe durare più di due anni. A quel punto molti di noi avranno trenta o trentacinque anni e saremo ancora più vecchi».

A Noemi Fedele, figlia di carabiniere, il concorso in polizia è costato il matrimonio: 29 anni, addestratore cinofilo, è laureata in economia aziendale e management e vive in provincia di Taranto: «Da ragazzina, per assecondare la mia passione per la polizia, mio padre mi portava a visitare le caserme; ogni volta che vedevo una volante mi ci immaginavo dentro. Quando è uscito il concorso, ho studiato notte e giorno e ho ottenuto un risultato più che soddisfacente. Eppure mio marito, che porta la divisa della marina, mi ha posto un aut aut: non sopportava l’idea di vedermi poliziotta, perché per lui è un mestiere troppo pericoloso e non adatto a una donna. Non ho esitato neppure un attimo e ci siamo separati ancor prima che iniziassi le prove di selezione».

C’è chi il poliziotto lo farebbe anche gratis, come Antonio Maiello, trentunenne di Afragola: «Da volontario in Croce Rossa, ti rendi conto di quanto sia importante donare un sorriso a chi è in difficoltà, senza badare a nulla, né a turni massacranti né alle festività». Figlio di vigile urbano, Antonio è un arbitro di calcio a 5 in serie C1. «Dopo aver aver arbitrato sui campi di calcio, soprattutto quelli di certe zone dove i “tifosi” sono le “bande” degli amici dei giocatori, ti rendi conto di quanto sia complicato far rispettare le regole. Tra noi, per motivarci prima delle partite ci diciamo: “siamo uomini giusti portatori di regole giuste”. E per me entrare in polizia avrebbe quello stesso significato».

Laureato in giurisprudenza, Antonio ha fatto pratica nello studio di un avvocato penalista: «Una delle mie aspirazioni era quella di diventare pubblico ministero. Durante il praticantato, mi sono trovato in situazioni in cui si difendevano dei criminali e in alcuni casi, grazie all’ottimo lavoro della difesa, sono stati assolti. Era contro i miei ideali, ma rientra nelle regole».

Gabriele Petrozzi, invece, quando ha fatto il concorso era istruttore di nuoto, ma ha lasciato le piscine in attesa di una chiamata ormai certa che però non è mai arrivata: «Ho totalizzato un punteggio di 9,5, ma mi sono visto escludere come tanti altri. Sono senza un lavoro e con un’incertezza del futuro che penso perseguiti un po’ tutti noi. Pur essendo tra i più stimati nell’ambiente dove lavoravo, non mi sono fatto rinnovare il contratto e ho iniziato a fare consegne per un magazzino di tovagliato per ristoranti in attesa di partire per il corso».

Proprio tra gli agenti che frequentano la palestra dove lavorava ha sentito la sua vocazione: «Persone allegre e positive che amano il proprio mestiere malgrado le difficoltà. Ascoltando le loro storie ho capito che mi sarei trovato in una grande famiglia. Mi dicevano che ovunque sarei andato avrei trovato persone che mi avrebbero accolto in una comunità. Per questo mi sono innamorato dell’idea di indossare quella divisa. A casa sono rimasti tutti stupiti dell’impegno messo per superare il concorso. Non sono mai stato un grande studioso, ma in questo caso mi sono dedicato anima e corpo per riuscirci tanto che mia madre, quando ha visto il punteggio raggiunto, mi ha detto che aveva conosciuto un altro figlio, mai visto in tutti gli anni passati».

Mirella Occhipinti, 30 anni e una laurea in tecniche della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro, viene da Corleone, tristemente nota frazione palerimitana, dove ha vissuto per 25 anni prima di trasferirsi in provincia di Enna. Qui vive col compagno, anche lui poliziotto. Ottenuta l’idoneità, per indossare la divisa ha lasciato un lavoro a tempo indeterminato: «Crescere in un posto come Corleone ti fa sentire dentro, come un pugno, il valore di parole come giustizia e coraggio. Il coraggio di guardare il mondo a testa alta, con gli occhi di chi non si è lasciato piegare dall’illegalità e dalle ingiustizie».

La divisa, anche per Mirella, è una vocazione: «Crescendo in un ambiente difficile come quello in cui sono nata e vissuta, spesso hanno storto il naso quando ho detto di voler entrare in polizia. Eppure ho conosciuto tanti ragazzi per bene, tante associazioni antimafia che hanno lavorato sodo, tante persone che non hanno avuto mai paura di dire che la mafia fa schifo. Quando sei piccola e senti dire che hanno sterminato una famiglia per una faida, ti cova dentro la rabbia e la voglia di cambiare tutto».

Arriva dal Piemonte Antonio Federico Trunfio, un posto nel settore meccanico dei mezzi pesanti dove ripara gli autobus. A 18 anni si iscrive al comando provinciale dei vigili del fuoco e da allora guida i camion da volontario: «Nelle selezioni interne dei vigili del fuoco non sono riuscito a rientrare per poca anzianità. Poi ho partecipato al concorso per la polizia totalizzando un ottimo punteggio. Come è andata a finire lo sappiamo: con i nuovi requisiti richiesti ho superato i limiti d’età. Sembra una beffa: troppo giovane per i pompieri, troppo vecchio per i poliziotti».

Di Scampia, 27 anni, Antonio Rinaldi ha perso suo padre per una grave malattia quando aveva 15 anni e mantiene la sua famiglia da appena diplomato: «Tra il 2004 e il 2006, gli anni più bui della faida tra clan, ho visto coi miei occhi l’impegno costante degli agenti. Dopo qualche anno, le Case dei Puffi, la piazza di spaccio più grande d’Europa, erano tornate dei luoghi quasi normali, gli “zombie” (i tossicodipendenti in cerca di dosi, ndr) non c’erano più, i bambini tornavano a giocare nei giardini, le famiglie potevano camminare tranquille per le strade. È questo che mi ha fatto ammirare tanto i poliziotti e desiderare di fare quel lavoro. Il bando di concorso è stato pubblicato all’una di notte: alle due già stavo compilando la richiesta».

Oggi, Antonio è senza lavoro. «Ho preparato l’esame lavorando dieci ore di seguito e rinunciando alle due di pausa per uscire prima e andare a casa a studiare. Ho passato sui libri anche i quindici giorni di ferie. Quando sono partito per i cinque giorni delle selezioni, al lavoro mi hanno fatto molti problemi, malgrado fosse nei miei diritti. Così, ottenuta l’idoneità, mi sono licenziato. Sono cresciuto in una famiglia umile, di operai. A casa non vedevano bene l’idea che lasciassi il lavoro per qualcosa di incerto, ma era l’occasione che aspettavo da sempre. Il giorno che è arrivata la notizia è stato il più bello della mia vita; adesso quella data significa l’inizio di una lunga agonia».

Il sogno, per tutti e 455, resta quello di servire lo Stato, avere un lavoro non precario, anche se pagato poco, indossando una divisa per cui darebbero anche la vita e non per per apparire in qualche selfie o in qualche diretta Facebook. Altri ragazzi a cui l’Italia sta negando un futuro, altri ragazzi da piangere se decideranno di emigrare in posti migliori.