Milioni di persone in cerca di rappresentanza riempiono le piazze e votano alle primarie. Adesso la politica ha il dovere di rispondere

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Nel recente ed esilarante romanzo che lo scrittore Giacomo Papi ha dedicato a un personaggio molto simile a Salvini (“Il censimento dei radical chic”, edito da Feltrinelli) il protagonista ha il titolo di Primo Ministro dell’Interno. È una formula letteraria, ma rende bene la realtà in cui ai poteri formali del Viminale si sono assommati quelli risultanti dai rapporti di forza tra i due alleati del famoso Contratto. Tra le diverse cose che abbiamo imparato negli ultimi mesi, infatti, c’è anche che quando un partito senza ideologia incontra un partito con un’ideologia, quello senza ideologia è un partito morto; e l’egemonia di questa maggioranza, apparentemente postideologica, si è invece rivelata come un ortogonale sistema di pensiero fatto di destra autoritaria, patriarcale, machista e a tratti razzista, stronzista e un po’ squadrista, arrogante e irridente, incapace di governare nell’interesse dei molti ma eccellente nell’utilizzare la disintermediazione digitale per nutrire ogni giorno il suo potere, coltivando la paura dello straniero e il risentimento reciproco.

Man mano che si delineava il vero carattere di questo governo - e la sua reale leadership - c’è stata una fetta di paese che ha iniziato a ribellarsi. Non la politica di palazzo, s’intende, non i partiti di sinistra o ex di sinistra, rimasti storditi dopo il 4 marzo: a opporsi è stato invece l’associazionismo di base, il volontariato, la parte migliore del mondo cattolico (e, da subito, quello piccolo ma significativo dei valdesi), i movimenti delle donne, quelli più magmatici degli studenti e qualche sindaco, da Napoli a Milano, da Riace a Palermo. Poi si è mosso con tutta la sua forza il sindacato, che ha cambiato passo e segretario riempendo piazza San Giovanni - e Dio salvi i corpi intermedi. Quindi sono arrivate le 200 mila persone di Milano e basta vedere chi le ha chiamate a manifestare (una rete di 30 associazioni, tra le quali Acli, Anpi, Amnesty International, Arci, Comunità di Sant’Egidio, Emergency, Libera, I Sentinelli e Terres des hommes) per capire come la risposta al potere salviniano sia arrivata dalle persone - people - assai più che dai partiti.
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Si tratta di risvegli, come nel celebre libro di Oliver Sacks. Risvegli visibili anche nel milione e seicentomila persone che hanno sfidato la letargia in cui il Pd era immerso dal 4 marzo 2018, dopo lo scoppio della bolla renziana. Le primarie democratiche hanno evidenziato quel gigantesco bisogno di rappresentanza rimasto a lungo senza risposta ed è lo stesso bisogno che si era visto nelle due piazze - quella sindacale di Roma e quella antirazzista di Milano. Un popolo - chiamatelo di sinistra, progressista, antifascista o come più vi piace - che ha detto: noi ci siamo e abbiamo bisogno che qualcuno faccia davvero politica, a ogni livello, rappresentandoci. Vi firmiamo un assegno, ma non è in bianco, non è a fondo perduto, troppe delusioni abbiamo subito, troppe ne abbiamo viste. Ma provateci, ora.

Anche la vittoria di Zingaretti - “l’uomo normale” Zingaretti - sembra abitare dentro questo sentiment. Non è un leader che arringa le folle, né spacca i social di fanfaronate, ma è riuscito a farsi percepire negli anni come portatore di merci nel frattempo diventate rare, come il buon senso e l’inclusione. Ha alle spalle un curriculum fortemente anticiclico, di questi tempi: la più classica scuola di partito e tutto il cursus honorum dalla Fgci al Parlamento europeo. Cresciuto all’ombra di Veltroni, doveva diventare come lui sindaco di Roma e si è ritrovato governatore del Lazio quasi per sbaglio, dopo che lo scandalo Batman-Fiorito aveva fatto crollare la giunta Polverini. Molte donne non hanno dimenticato che in questa veste si è battuto per assumere negli ospedali pubblici della regione solo ginecologi non obiettori, scatenando l’ira degli antiabortisti. Mentre montava l’onda antimigranti, è stato tra i primi governatori ad attuare la legge Zampa, quella che permette ai volontari di diventare tutori di minori stranieri non accompagnati. Nulla di rivoluzionario, ma che potesse diventare il nuovo segretario del Pd lo si è capito proprio il 4 marzo 2018, il giorno del grande crac democratico: nel Lazio, alle politiche, il M5S aveva preso il 33 per cento e il Pd il 18; alle regionali Zingaretti aveva avuto il 33 per cento e la grillina Lombardi il 27. Risultati quasi rovesciati: lo stesso giorno, nelle stesse urne, decine di migliaia di persone votavano Zingaretti alla regione e il Movimento 5 stelle alle politiche. Più chiaro di così, il segnale non poteva arrivare, ed è quel giorno che è nato il 66 per cento delle primarie.

Tutt’altro discorso naturalmente è se possa bastare uno Zingaretti per rispondere alla sete di rappresentanza emersa dal basso negli ultimi mesi. La reale statura politica dell’uomo è tutta da misurare così come quella della classe dirigente di cui si circonderà (o da cui, più temibilmente, si ritroverà circondato). E a proposito dell’esito delle primarie Pd, nei giorni scorsi c’è stato chi in giro ha ironicamente ricordato un’espressione goliardica e irripetibile secondo la quale, passata una certa ora della notte, non si sta lì troppo a guardare: si finisce per trovare assai attraente anche la (il) potenziale partner che solo poche ore prima si considerava poco appetibile. Nella sua trivialità, l’espressione in questione esprime efficacemente il meccanismo psicologico della compressione delle ambizioni finalizzata a tacitare un bisogno primario. E il bisogno politico primario, a sinistra, oggi è appunto uscire dalla condizione di solitudine-orfanità in cui ci si trovava dopo la fine della ditta bersaniana, la catastrofica parabola renziana, le mille diaspore e un doloroso anno di hangout.

La stessa esigenza di rappresentanza ha rianimato i cuori di molti quando un mese e mezzo fa il combattivo e “autentico” Maurizio Landini è diventato segretario del più grande sindacato italiano. E - ancora - la stessa necessità ha trasformato la percezione del sindaco di Milano Giuseppe Sala in un modello di leadership di sinistra, al limite del radicale: niente male per un ex manager bocconiano già consulente di grandi banche che ha fatto il direttore generale del Comune con Letizia Moratti. E, infine, il medesimo bisogno di rappresentanza aveva convinto al grande passo nella politica nazionale un altro sindaco, Luigi De Magistris, il cui progetto però ora si sta arenando nelle consuete risse di sigle a sinistra del Pd (nota per gli entomologi: l’ingresso nella sua coalizione dei sovranisti di sinistra di Giorgio Cremaschi e Potere al Popolo ha fatto uscire il gruppo europeista legato a Diem e Pizzarotti, quindi probabilmente l’area in questione andrà al voto europeo con due liste divise, una con il rosso Rifondazione e i no euro di Pap e un’altra di verdi-europeisti-Possibile-Pizzarotti più sindaci vari; dato il casino, De Magistris sta valutando se sfilarsi e puntare alle regionali campane dell’anno prossimo).
A proposito di litigi, se adesso la palla passa davvero dai fermenti associativi di base alle nuove rappresentanze politiche progressiste, per queste ultime si riapre la grande questione che le ha sempre perseguitate, cioè il virus delle divisioni (l’eterno “odia sempre chi ti sta seduto più vicino”) e la capacità di superarle solo quando c’è un grande nemico da arginare. Quello che accadde, per capirci, quando l’eroico Prodi riuscì a tessere quella strana tela che battezzò prima Ulivo e poi Unione, andando a sbattere poco dopo in entrambi i casi. Restano comunque due miracoli, le vittorie alle urne del 1996 e del 2006, carburati non solo dalla testardaggine del Professore ma anche - o soprattutto - dall’esigenza di mettersi insieme contro un potente nemico comune, qual era al tempo Silvio Berlusconi con la sua montagna di denaro e la sua paurosa compagnia di giro fatta da reti televisive, ex fascisti, leghisti e un po’ di mafia (oggi Berlusconi passa per un innocuo anziano che racconta barzellette sceme: siamo un paese indulgente e dalla memoria corta, ma le macerie del suo ventennio sono tra noi e non sono estranee alla catastrofe subculturale che abbiamo sotto gli occhi).

Ora al posto di Berlusconi c’è Salvini e - appunto - il nemico compatta sempre: quanto più è forte tanto più compatta, è quasi una legge della fisica. Ma la stessa legge - come dimostra il passato - ha tuttavia ha in sé un pericoloso corollario: se si riesce a stare insieme solo per arginare l’avversario, la propria identità politica rischia di essere solo in negativo, contro qualcosa. E ci si dimentica di costruirsi un’identità in positivo, per qualcosa.
È stato questo il buco nero del centrosinistra nel periodo berlusconiano: non saper aggiungere alla opposizione una posizione. Un’identità valoriale e politica da tradurre in proposte forti, tali da creare una comunità per qualcosa e non solo contro qualcosa. Questo ci si aspetta oggi dalla futura rappresentanza della sinistra, quale che essa sia. Contenuti, proposte, magari perfino un disegno di Paese, da ideare e condividere per formare una comunità discretamente coesa. Qualcosa di simile a quello che dall’altra parte dell’oceano stanno cercando di fare i democratici come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, che parlano sempre meno di Donald Trump e sempre più di quello che concretamente vorrebbero fare per gli Stati Uniti.
Ma, a proposito di questo, è assai probabile che qui in Italia il popolo della sinistra sia un po’ stufo di guardare con invidia i leader e i partiti fuori dai confini. Se non è di troppo disturbo, ne vorremmo di decenti anche qui. Questo è quanto è emerso, piuttosto chiaramente, negli ultimi due o tre mesi.
Con fiducia che forse è solo ingenuità, aspettiamo una risposta.