Pochissime leggi, qualche decreto. Per non litigare si evita di prendere decisioni. Governo diviso, Camere immobili, ridotte a passacarte. E il rischio che questa sia la legislatura più breve della storia repubblicana. Così il cambiamento ha prodotto la paralisi

E in Parlamento si apre l'Era del Vivacchio

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Si inizia a vivacchiare in un giorno preciso. Quel giorno nel quale si proclama di non voler vivacchiare. Così Giuseppe Conte ha inaugurato la sua personale «Era del vivacchio» il 3 giugno, con la conferenza stampa del penultimatum, spaventosamente simile nel piglio a quella che nella stessa stanza tenne Enrico Letta prima di essere sostituito da Matteo Renzi, nel 2014. Ma, stavolta, inaugurata dall’indimenticabile incipit in cui Conte confondeva la data dell’anniversario della Repubblica con quella del suo primo anno di governo (e quando ce lo ridanno, un premier così): «Non intendo vivacchiare», ha scandito allora. Buon ultimo di una folta schiera.

Non voleva vivacchiare Lamberto Dini, nell’agosto 1995, non voleva vivacchiare Romano Prodi, nel 1997, non voleva vivacchiare Giuliano Amato nel 2000, non voleva vivacchiare Silvio Berlusconi, nel 2005. «Non ci faremo cuocere a fuoco lento», proclamava da vicepremier Walter Veltroni nel luglio 1998, tre mesi prima che Bertinotti togliesse l’appoggio al governo. «Rischiamo di farci rosolare», è l’avvertimento che adesso proviene dall’area capitanata dal leghista Giancarlo Giorgetti, potente sottosegretario a Palazzo Chigi, in pratica vice del premier ombra (Matteo Salvini), alla fin fine paradossalmente d’accordo con il capo formale del governo («così non va»). Ma c’è tempo. A spanne, per media storica approssimativa, tra il proclama del vivacchiare e l’effettiva fine del governo almeno nella Seconda Repubblica sono trascorsi tra i tre e i quindici mesi. Ragion per cui - statisticamente - l’unico record che sembra agguantabile a questo punto è la durata della legislatura: con l’attuale siamo a 438 giorni, la più breve della storia repubblicana fu l’undicesima, con 722 giorni. Tempo per vivacchiare, volendo, ce n’è (oltretutto ci sono circa 200 nomine da fare, nei prossimi 11 mesi).

Mentre giusto uno che ha tutte le ragioni per essere ostinato come Luigi Di Maio si avventura a parlare dei «prossimi 4 anni di governo», mentre l’Europa incombe con le procedure di infrazione e sull’Italia volteggiano i numeri del debito pubblico e dello spread, in Parlamento la scossa per la possibile fine arriva in maniera del tutto inedita. Se ne avverte lo schiocco, non gli effetti. Manca la materia su cui trasferirla: non c’è infatti quasi nessuno.

Deserto tra i banchi d’Aula, nei corridoi, persino in buvette. Giusto il tempo strettamente necessario agli affari correnti, per il resto il panico rimbomba per stanze semivuote. Ad esempio alla Camera l’appuntamento previsto per martedì pomeriggio è rinviato a mercoledì, poi a giovedì, poi direttamente al lunedì successivo. Al Senato gli arazzi sussurrano soluzioni d’accordo per lo sblocca cantieri, ma per un giorno intero non si incontra quasi nessuno con cui parlarne. Poco di cui stupirsi, ci sono tutti abituati visto che ci troviamo in una delle legislature meno produttive della storia recente. Punteggiate di fenomeni surreali e preoccupanti. A tutti i livelli.

Dal Consiglio dei ministri del 30 aprile che aveva come unico punto all’ordine del giorno le «varie ed eventuali» (è durato comunque un’ora buona) fino al decreto pubblicato 29 giorni dopo il suo primo affaccio al tavolone dei ministri, giusto per stare al governo. O, per scendere al parlamento, passando per ritmi di riunione che non superano i 12 al mese di media alla Camera (ancor meno al Senato) e che, sempre a Montecitorio, arrivano a dettagli apparentemente tecnici ma essenziali, che fanno arrossire i custodi del Palazzo: ormai gli Uffici di presidenza, praticamente l’organo di governo interno, si tengono una volta ogni due mesi contro una media precedente di una volta a settimana. A stare ai Bollettini pubblicati, da quando si è insediato il governo c’è stata una discesa in picchiata: tre a giugno, due a luglio, uno ad agosto, uno a ottobre, uno a dicembre (la contabilità si ferma a gennaio).

È, per quanto visibile, la prova più forte di quanto poco stia lavorando la macchina istituzionale: se si ferma quella politico-parlamentare, anche il resto di conseguenza si muove al rallentatore. E laddove annoiano i numeri, vi sono tremende circostanze come l’edificante episodio detto «arriva qualcuno» occorso a Montecitorio la sera delle elezioni europee. Quando i Cinque Stelle, dopo aver praticamente costretto il Palazzo ad ospitare le dirette tv di commento ai risultati elettorali (vantarsi di non spendere soldi per una sede e, poi, appoggiarsi alle istituzioni che si volevano aprire come una scatoletta di tonno: appunti per una tesi di laurea) - per l’occasione è stata addirittura concessa preziosa la Sala della Lupa, quella dove si riunirono i deputati aventiniani nel 1925, quella dove furono comunicati i risultati del referendum monarchia-repubblica - hanno poi disertato completamente la serata, forse in onore alla democrazia rappresentativa, lasciando i giornalisti a bivaccare per ore, in attesa, seduti sui palchetti preparati ad ospitarli. E costringendo taluni commessi a fargli da uffici stampa: «Arriva qualcuno arriva qualcuno, preparatevi», avvertivano la stampa. Ma qualcuno chi? «Qualcuno». Che poi, in stile omerico, si rivelava essere un rotondo Nessuno.

«Non so quanto durerà, ma fino all’ultima ora dell’ultimo giorno il mio sarà il governo del cambiamento», ha giurato l’altro giorno Conte, nel momento esatto in cui certificava che da mesi il governo non dà più segnali di vita, in una specie di agonia al rallentatore che ha visto in aprile il record di durata del Consiglio dei ministri: 4 ore e 20 minuti, per licenziare l’ennesimo testo da riscrivere poi, una volta trovate le intese. «Un governo per gli affari correnti», l’ha soprannominato il Foglio. Un esecutivo che è riuscito in un anno, secondo i calcoli del sito indipendente Pagella Politica, a realizzare 37 di 317 punti del sacro contratto, il famoso testo che il presidente del Consiglio è chiamato ad eseguire, ma non ha contribuito a scrivere («il contratto io l’ho letto attentamente», ha precisato orgoglioso Conte con il tono di chi sottintende: a me non la si fa). E che, sempre in un anno, è riuscito a fare d i questo Parlamento uno dei più inutili della storia Repubblicana. Sotto diversi punti di vista e seguendo vari parametri, ma tutti abbastanza in linea con la famosa convinzione di Davide Casaleggio sulla futura inutilità delle Camere.

Già adesso siamo un pezzo avanti. Camera e Senato, in pratica, si occupano per la maggior parte del tempo di approvare decreti del governo, oppure testi poco controversi o sui quali l’apporto dei parlamentari è minimo: si va dall’istituzione di commissioni di inchiesta a leggi annuali come la legge europea licenziata ad aprile, fino alla ratifica dei trattati internazionali, che a loro volta rappresentano quasi il 60 per cento dell’attività del governo e che in generale vanno fortissimo. A voler essere paradossali, il massimo del sussulto parlamentare si ritrova in leggi come quella sull’obbligo dei seggiolini salva bebè, ecco.

Nell’intera legislatura, secondo i dati pubblicati dalla Camera, sono stati approvati dal Parlamento 23 disegni di legge di iniziativa governativa e 17 conversioni dei decreti legge del governo. Secondo i dati elaborati da Openpolis, l’80 per cento dei documenti di cui si occupa il Parlamento (e il 70 per cento dei testi approvati) arrivano dal governo: conversioni di decreti, o appunto ratifiche di trattati e convenzioni. Una percentuale record, rispetto agli ultimi dieci anni e cinque governi, i quali al massimo sono arrivati a coprire il 64 per cento del totale dell’attività parlamentare. Adesso, invece, abbiamo picchi del cento per cento come è accaduto a gennaio, quando il numero di leggi approvate definitivamente dai due rami del parlamento è stato di sette: tutti trattati internazionali, dal trasferimento di equipaggiamenti e di tecnologia di difesa con il Giappone alla cooperazione culturale, scientifica e tecnologica con il Laos, dall’accordo sull’estradizione in Bosnia ed Erzegovina, fino al protocollo di Nagoya-Kuala Lumpur in materia di responsabilità e risarcimenti.

Per altro verso, il numero di leggi approvate è bassissimo: meno di quattro al mese, la metà rispetto alla media degli ultimi dieci anni. Leggi approvate più velocemente, e con pochissimi voti contrari. Praticamente i testi vengono discussi in un terzo del tempo rispetto al passato: per un verso perché se ne discute molto meno, per l’altro perché la massa totale dei provvedimenti è minore e non si creano tappi e ingorghi. Come a dire che Camera e Senato sono ridotti a poco più che passacarte di un governo che attua il suo programma per decreto. E che al Parlamento scrive pochissimo: ha evaso l’8 per cento di interrogazioni scritte delle due Camere, con picchi che riguardano proprio Palazzo Chigi (da Conte e Giorgetti zero risposte su 117), il ministro dell’Economia Tria (zero risposte su 101), il ministro dell’Istruzione Bussetti (zero su 159), e la ministra della Salute Grillo (1 su 189). A sua volta, l’esecutivo è indietro sui decreti attuativi, quelli che servono per far funzionare le leggi: ad esempio, nessun decreto attuativo è stato emanato dei 17 previsti per il decreto Sicurezza e dei 13 previsti per il decreto Semplificazioni. Del resto il governo del cambiamento è fatto così: specializzato nella «logomachia», come ha detto Conte. Nella discussione, nei proclami, nelle chiacchiere. Sostanza, molta meno. Resta ad esempio avvolto nelle nebbie il punto centrale di quello che è il fiore all’occhiello delle realizzazioni a Cinque stelle. Del riordino dei mitologici Centri per l’impiego, perno per l’attuazione del reddito cittadinanza, non si hanno notizie certe: per ora di sicuro c’è che il 18 giugno saranno selezionati, dalle 54 mila domande, i 2.980 navigator previsti per favorire la ricerca di lavoro. Poi si vedrà.

Ci finiranno, nei centri per l’impiego, pure i parlamentari Cinque Stelle? Non è escluso. Se crolla tutto, due terzi di loro infatti probabilmente non rientreranno. Più precisamente, di 326 parlamentari M5S, secondo le regole del Movimento, 114 (77 alla Camera e 37 al Senato) non saranno comunque ricandidati, perché sono già al secondo mandato (tra loro, manco a dirlo, ci sono tutti i big escluso Alessandro Di Battista che si è prudentemente tenuto fuori dalla mischia). A questi, bisogna aggiungere coloro che, visto il crollo di voti dei Cinque Stelle alle europee, finirebbero probabilmente non rieletti. In totale, secondo alcune simulazioni effettuate (ad esempio da Youtrend) sulla base dei dati del 26 maggio, sui 326 attuali, 207 non sarebbero rieletti. Ed ecco, il maggior punto di stabilità della legislatura su cui può contare Di Maio, sempre che Davide Casaleggio glielo consenta. Quell’arietta fantasmatica che si è già cominciata a levare dai corridoi semivuoti, ricordando le indimenticabili parole che Antonio Razzi rivolse all’ex collega di partito Francesco Barbato, ormai due legislature fa, per convincerlo a passare con lui nella maggioranza berlusconiana. «Ti manca meno di un anno. Fatti li cazzi tua e andiamo avanti», gli chiarì raffinato. C’è da dire che, di partenza, il parlamentare grillino non ha tutta questa familiarità con procedure del genere. E che questa legislatura, esattamente all’opposto della precedente, si segnala per un numero bassissimo di cambi di casacca. Finora, almeno.

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