
Vincere è una droga. Si comincia con una dose e non si riesce più a smettere. Perché il successo porta con sé, oltre agli allori, la stima il rispetto, accresce il delirio di onnipotenza, il desiderio di riassaporare la sensazione dolce di essere venerato. Tutti saltano sul tuo carro e tu devi rilanciare, sempre più in alto, sempre in cima alla vetta. Finché, se la salita è stata troppo precipitosa e incauta, la rarefazione dell’ossigeno fa aumentare la velocità di respirazione e il ritmo cardiaco. E si precipita. Vincere è una droga soprattutto se è coniugata con la favola antica di Davide contro Golia e Davide abbatte il colosso non una ma un sacco di volte prima che si scopra l’inganno: era truccata la fionda.
Il Davide di questa storia è la Mens Sana Siena di basket, assoluta dominatrice in patria per un decennio a cavallo degli Anni Dieci del nuovo millennio, protagonista in Europa contro metropoli opulente, per quello definito con scarsa fantasia un miracolo italiano che, si scoprirà in seguito, fu favorito da una serie di reati. Descrivendo così la stessa parabola del Monte del Paschi, sponsor della squadra. Simul stabunt simul cadent. La banca era il panem, la pallacanestro i circenses per la piccola e meravigliosa città che gremiva gli spalti del Palazzetto dello sport, ebbra di orgoglio e di felicità nel vedere i propri atleti inevitabilmente trionfare.
Flavio Tranquillo, il più famoso e competente dei telecronisti della palla a spicchi, stavolta ha lasciato l’amata Nba gli schemi e il commento tecnico per buttarsi sulle carte, sudate carte, dell’inchiesta giudiziaria e ricostruire l’intera vicenda dando ampia voce ai protagonisti. Il risultato è un libro “Time out” (Add editore, 300 pagine, 18 euro) che fin dal sottotitolo, “Ascesa e caduta della Mens Sana o dello sport professionistico in Italia”, si prefigge lo scopo di essere un paradigma, eccedere l’ambito della sua ricerca per mostrare tutte le storture del rapporto malsano che in tante discipline si instaura tra team e mecenati. E che resterà tale fino a quando lo spettacolo dello sport non sarà in grado di autofinanziarsi senza ricorrere a patti col diavolo per competere e mantenersi al vertice.
Tranquillo si iscrive, con ammirevole sincerità, nell’elenco di chi per un tempo troppo lungo aveva chiuso gli occhi davanti a una realtà che avrebbe dovuto essere lampante come ne “La lettera rubata” di Edgar Allan Poe. Fino a quando il treno fischia e, a posteriori, rende il tutto intelligibile. L’autore parte dunque da un dato: 5 milioni e 122 mila euro, la cifra spesa in salari per gli atleti, in un anno in cui Siena vinse lo scudetto e approdò alla Final Four di Eurolega, la massima competizione continentale. Troppo poco, è di palmare evidenza, quando si conoscono, e grosso modo l’entità si conosce, gli stipendi dei campioni assoldati nel roster. Gente come Bo Mc Calebb, Bobby Brown, Terrell McIntyre, David Andersen, Rimantas Kaukenas, Romain Sato, Daniel Hackett, Shaun Stonerook, Ksystof Lavrinovic per citare i più famosi.
Doveva dunque esserci del marcio sotto la Torre del Mangia (nome profetico) ma nessuno, proprio nessuno, aveva interesse a disturbare i manovratori quando l’euforia rende ciechi. Sul parquet si accumulavano successi, otto titoli tricolori tra il 2004 e il 2014 (due saranno revocati), coppe Italia, supercoppe, coppe europee. Un’aura di invincibilità per la Juventus dei canestri che, se non aveva alle spalle una Fiat, aveva l’istituto di credito più antico del mondo, fondato nel 1472, prima della scoperta dell’America. Alla guida del quale sedeva l’ambizioso avvocato catanzarese Giuseppe Mussari.
L’alter ego di Mussari nel basket è un personaggio assai meno conosciuto alle cronache, Ferdinando Minucci, classe 1953, originario di Chiusdino, piccolo paese del senese, laurea in scienze politiche, esperienze nel settore bancario, quindi editore di giornali e tv, passione smodata per la pallacanestro. Minucci ha la postura degli incontentabili. Di quelli che, raggiunto un risultato, pensano al successivo e non si fermano. Mai.
Dal 1990 al 1992 è direttore del marketing e della pubblicità della Mens Sana, poi fino al 1999 direttore generale, quindi vicepresidente. Nel 2000 è l’artefice dell’accordo di sponsorizzazione con Mps (durerà fino al 2014), di cui è stato dipendente. Infine, dal 2008 al 2012, finalmente presidente. Un manager dalle capacità unanimemente riconosciute se, anno dopo anno, costruisce una rosa di giganti in tutti i sensi, capace di spazzare via qualunque concorrenza, umiliare le piazze storiche del basket italiano, Milano, Bologna, Varese. Sino a mietere premi e diventare leggenda. “Mangia d’oro” del comune di Siena nel 2004, miglior dirigente della serie A dal 2007 al 2009, Euroleague Club Executive of the Year (2008), commendatore (2002) e poi grande ufficiale della Repubblica (2008) su proposta del Consiglio dei Ministri.
Minucci è il playmaker e il pivot, cioè il regista e finalizzatore, del basket italiano. È il re Sole attorno al quale tutto si muove, estende il suo potere senza limiti, coadiuvato da una corte che lo asseconda e da uno stuolo di ammiratori che nemmeno si pongono il problema di come faccia. Il Monte dei Paschi è la mammella da cui suggere il liquido necessario per mantenere il sistema, quel Monte che non è la banca di Siena ma è Siena e vive, nella stessa epoca, la stessa ubris, si gonfia come una rana, per trasformare la città del Palio in una capitale della finanza, prima della catastrofe che dilapiderà il risparmio di decine di migliaia di cittadini oltre che, purtroppo, anche alcune vite.
Ma, negli anni dell’incantamento, erano tabù le domande anche più banali. Il prestigio della città, la sua fama nel mondo, erano l’antidoto al pensiero razionale. Quando logica avrebbe voluto che ci si interrogasse sulla inopinata dilatazione dei debiti contratti dalla banca per farsi gigante almeno quanto i suoi eroi da parquet. E ci si chiedesse come poteva un team dal budget ufficiale corposo ma non enorme contendere sul mercato dei califfi del canestro al Cska Mosca, al Real Madrid, alle iperforaggiate squadre greche e turche. Siena passava spensierata dagli sportelli del credito allo stadio del basket in una sorta di Palio perenne in cui non c’era bisogno di cavalli, Mussari e Minucci M&M erano i suoi purosangue capaci (e questo sì era un vero miracolo) di mettere d’accordo tutte le contrade. Il basket portava in Europa il nome Montepaschi. Il Montepaschi si fregiava nel merito di alimentare lo show laddove aveva più a cuore il consenso popolare.
Poi la sbornia finì. E l’intera città si risvegliò con la testa pesante. Le inchieste che travolsero la banca indussero a limare e alla lunga a sopprimere i contributi alla squadra talmente abituata a primeggiare da sfiorare un titolo anche quando era tecnicamente fallita. Come un cavallo scosso che, pur senza il suo fantino, corre a perdifiato fino al traguardo. Era il 2014, cinque anni fa, Ferdinando Minucci si era dimesso da un anno da ogni incarico dopo che aveva preso le mosse l’inchiesta “Time out” (stesso titolo del libro) avviata dalla Guardia di Finanza sotto la guida del sostituto procuratore della Repubblica Antonino Nastasi e in seguito alla quale finirà agli arresti domiciliari per associazione per delinquere volta alla commissione di reati tributari tramite fatturazioni false e false comunicazioni sociali, bancarotta fraudolenta.
Il meccanismo che permetteva, secondo gli inquirenti, di pagare ai cestisti quota corposa dei salari in nero viene così ricapitolato da Tranquillo: «Tutto si fondava su un giro di false fatturazioni, con conseguente retrocessione di una consistente parte delle somme fatturate alla società di basket e conseguente evasione fiscale, praticata anche tramite contratti per la cessione dei diritti di immagine. Secondo la procura questa architettura contabile ha provocato il dissesto e quindi il fallimento del club». Prossima udienza del processo a ottobre. Nel frattempo il tribunale di Siena ha respinto la richiesta di patteggiamento per una pena appena superiore ai quattro anni avanzata sia dalla difesa di Minucci sia dal pubblico ministero.
Proverbialmente, mentre è gremito il carro dei vincitori, così è vuoto quello degli sconfitti cui spesso tocca persino l’onta del calcio dell’asino. Flavio Tranquillo si sottrae a questa logica. Il suo è un interesse più vasto, vuole comprendere senza giudicare, guidato certo dalla volontà di sottolineare gli errori, ma mantenendo equilibrio e anche una dose di pietas e compassione (nel senso etimologico greco) verso il potente caduto in disgrazia. Non per caso apre spesso le virgolette per riconoscergli il diritto di parola perché fornisca la sua versione.
Che non arriva mai all’assoluta negazione delle accuse ma inserisce la sua condotta in un contesto in cui la pratica era diffusa, una maniera di sopravvivere in un sistema di illegalità collaudata. Una chiamata a correo che certo non cancella la responsabilità individuale però induce a riflettere su storture generalizzate che producono in sequenza e senza soluzione di continuità, fallimenti di società e cancellazioni di squadre. Un discorso simile a quello pronunciato da Bettino Craxi in Parlamento agli albori di Tangentopoli.
Scinde anche, Tranquillo, i meriti acquisiti in campo dalle malefatte gestionali. Non avvalora l’equazione frode uguale vittorie. Sul campo la supremazia di Siena era limpida, alcune imprese memorabili e incancellabili. Né si appassiona alla disputa se sia stato giusto cancellare a posteriori due scudetti conquistati sul parquet. Semplicemente vuole ricostruire, per amor di verità, le cose per come andarono e cercare di avviare una riflessione su come evitare in futuro certe storture nelle discipline professionistiche. Convinto come è che lo sport, basket compreso, abbia tutte le possibilità, se ben gestito, di essere remunerativo per chi ci investe. E che il denaro rende liberi mette al riparo dalla tentazione di percorrere vie oblique, elimina il pericolo di essere in balìa di presidenti che magari menano vanto dal fatto di rimetterci però prima o poi si stancano.
Siena proprio nella stagione appena conclusa ha conosciuto il secondo fallimento, esclusa dal campionato di serie A2 per inadempienze economiche. Non ha fatto tesoro dell’esperienza passata e ha tradito di nuovo la passione e l’entusiasmo di una città che non aveva abbandonato il club nonostante i rovesci, accettando dopo il caviale degli anni d’oro, il pane duro delle serie minori. Quanto a Ferdinando Minucci, aspetta il verdetto del suo giudice. Un colpa ha già cominciato ad espiarla. È il rimorso che deve necessariamente provare per essere stato l’artefice della fine ingloriosa della sua amata creatura. Ma attenzione, non è il troppo amore che uccide, uccide l’amore a qualunque costo.