I ceti sociali fragili sono quelli che pagano il prezzo maggiore alla catastrofe del pianeta. Anche per questo serve un green new deal

Con questo articolo di Giovanni Carrosio, sociologo dell’università di Trieste e ForumDD, prende il via la collaborazione su temi sociali e ambientali tra L’Espresso e il Forum sulle Disuguaglianze e le Diversità coordinato da Fabrizio Barca. Il ForumDD è una rete di organizzazioni da anni attive in Italia sul terreno dell’inclusione sociale e di ricercatori e accademici impegnati nello studio della disuguaglianza e delle sue negative conseguenze sullo sviluppo. Lo scopo del ForumDD è fornire studi sul campo e proposte concrete per ridurre le disuguaglianze in Italia.

L’estate 2019 ha segnato un punto di non ritorno della crisi ambientale e climatica, che ha dominato le pagine dei giornali. Se fino a ieri non erano bastati gli allarmi lanciati dagli scienziati, una improvvisa accelerazione degli accadimenti ha contribuito a scalfire quel senso comune negazionista al quale hanno lavorato alacremente le forze sovraniste e tanti interessi economici organizzati. I ripetuti e sempre più duraturi picchi di caldo, gli incendi in Siberia e Brasile, i temporali sempre più intensi in Europa, la velocità con la quale si sono assottigliati i ghiacciai della Groenlandia hanno reso tangibili le conseguenze del cambiamento climatico. Questa “pedagogia delle catastrofi” ha anche messo in evidenza come, nonostante la questione ambientale sia potenzialmente senza confini territoriali e sociali, vi sono luoghi e persone che più di altri ne pagano le conseguenze. E spesso sono i meno responsabili delle condizioni in cui versa il nostro pianeta.

Dure verità
La bistecca inquina (molto) più della plastica. Ma non vogliamo sentircelo dire
11/9/2019
Esiste infatti una relazione tra disuguaglianze socio-territoriali e crisi ambientale. Le disuguaglianze accelerano la distruzione dell’ambiente a monte e producono ingiustizia ambientale a valle, dove gli effetti della crisi si distribuiscono in modo disuguale tra ceti forti e ceti deboli, tra territori forti e territori fragili.

Già dalla fine degli anni ’90, un gruppo di ricercatori dell’Università del Massachusetts guidato dall’economista James Boyce ha iniziato a indagare la relazione tra disuguaglianze e inquinamento dell’aria e dell’acqua per Paese. Ha scoperto che dove i divari di reddito sono più alti, le condizioni ambientali sono peggiori. Non c’entra tanto il Pil, quanto la distanza tra ceti forti e deboli in termini di ricchezza e potere. Successivamente i ricercatori hanno messo in relazione le disuguaglianze di potere con i tipi di politiche ambientali in nord America, scoprendo che gli Stati con le politiche ambientali più ambiziose e attente alla giustizia sociale sono quelli dove la distribuzione del potere è più equa. A partire da qui, tanti studi hanno dimostrato come al crescere delle disuguaglianze crescono i tassi di deforestazione, l’erosione di biodiversità, le emissioni climalteranti e l’incidenza della popolazione che vive in aree a rischio idrogeologico.

Grandi divari di ricchezza consentono ai nemici dell’ambiente di costruire una visione di sviluppo che contrappone lavoro e ambiente, sottraendo i ceti deboli dalla lotta per una migliore qualità della vita; i divari di potere indeboliscono ad esempio chi difende le comunità locali da grandi opere che compromettono la vivibilità dei luoghi oppure rendono i legislatori più permeabili a interessi contrari rispetto alla giustizia sociale e ambientale. E questo non accade soltanto nel Brasile di Bolsonaro, dove la resistenza indigena alla deforestazione viene repressa con la violenza. Con pesi e misure diverse accade anche nel nostro Paese: si pensi alla forza delle lobby petrolifere sulla vicenda delle trivelle nell’Adriatico; alla collusione tra industria e potere politico sulla vicenda della contaminazione da Pfas in Veneto; alla legge obiettivo per accelerare l’iter delle grandi opere; al ricatto occupazionale nelle tante vertenze che contrappongono lavoro e salute, una per tutte l’Ilva di Taranto.

Le disuguaglianze dunque accelerano la crisi ambientale. E la crisi ambientale, a sua volta, colpisce soprattutto i ceti sociali più deboli e i territori più fragili.

In assenza di politiche che riconoscano le disuguaglianze e le diversità, i territori più fragili hanno meno capacità e possibilità di adattarsi al cambiamento climatico. Molte volte, vengono utilizzati come aree di conservazione e compensazione ambientale rispetto ai centri industriali, o peggio relegati a ricettacoli di attività inquinanti. I ceti deboli, a loro volta, hanno meno possibilità di difendersi dai problemi ambientali. Vivono in quartieri degradati, spesso in prossimità di impianti industriali con produzioni inquinanti; non hanno beneficiato delle politiche di eco-modernizzazione, che hanno favorito soprattutto i ceti medio-alti. Si pensi alle operazioni di riqualificazione ambientale dei centri storici, mentre le periferie vengono dimenticate; alle piste ciclabili pensate soltanto come itinerari turistici, mentre tante persone hanno problemi di mobilità quotidiana; agli incentivi fiscali per la conversione energetica degli edifici, che hanno escluso dal meccanismo di finanziamento gli incapienti, redistribuendo ricchezza dal basso verso l’alto. E ancora alla diffusione delle rinnovabili secondo un modello disattento allo sviluppo locale e alla socializzazione della ricchezza prodotta. Bastano questi quattro esempi, tra i tanti possibili, per mettere in luce come le disuguaglianze prodotte dalla crisi ambientale vengano incrementate dalle politiche.

Da questa consapevolezza muove il New Green Deal della sinistra americana, che vuole unire la lotta al cambiamento climatico con la riduzione delle disuguaglianze. Accanto alle misure radicali di conversione ecologica dei sistemi produttivi, il piano prevede un nuovo contratto sociale per ridurre le disuguaglianze, attraverso una legislazione sul salario minimo e il diritto universale all’assistenza sanitaria. Questo programma di transizione ecologica e sociale potrebbe rimettere in moto anche l’agenda politica progressista nel nostro Paese, ancora ferma a generiche intenzioni sullo “sviluppo sostenibile”. Un passo in questa direzione è stato fatto dal Forum DD, attraverso proposte che mettono al centro la lotta alle disuguaglianze. Una di queste affronta in modo congiunto giustizia sociale e giustizia ambientale, proponendo di introdurre elementi di progressività sociale anche nelle politiche ambientali, che fino ad oggi hanno favorito in modo diretto o indiretto i ceti medio-alti: una rimodulazione in chiave progressiva degli Ecobonus, la revisione dei canoni demaniali, una più puntuale e selettiva riqualificazione degli edifici con un’attenzione particolare a quelli che possono essere usati per scopi sociali.

Conta dunque moltissimo non solo la messa a punto di politiche ambientaliste ma il modo con il quale le politiche vengono costruite. Conta chi favorisco e chi penalizzo, da chi prendo risorse e a chi concedo risorse. Conta il riconoscimento o meno di chi produce la crisi e di chi la paga o la deve pagare. Se il nuovo governo vuole imprimere un cambiamento radicale al nostro paese, e lanciare un segnale all’Europa, parta da qui. Da nuove politiche che vadano nella direzione della giustizia ambientale e sociale insieme, perché la transizione ecologica diventi una meta socialmente desiderabile.