Non solo abusi domestici. I lockdown hanno alzato anche il rischio di crimini psicologici come  la diffusione di immagini intime online. Come reagire? Un libro indica la strada da seguire. Con l'appoggio di attiviste e gruppi di sostegno

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La pandemia da Covid-19 ha costretto miliardi di persone in casa per le misure di prevenzione del contagio. È un disagio sociale, economico e psicologico per tutti. Ma per alcuni più di altri: l’impossibilità di muoversi ha aggravato i casi di violenza domestica. Claudia Garcia-Moreno, che guida il dipartimento contro la violenza sulle donne dell’Organizzazione mondiale della sanità, ha dichiarato all’«Economist» che in tutti i Paesi occidentali si è registrato un aumento delle telefonate per chiedere aiuto.

In Francia le denunce alla polizia sono aumentate del 30 per cento solo nella prima settimana di lockdown. Ma l’isolamento con l’abusante, in casa, può portare anche all’effetto contrario, ugualmente preoccupante: a New York gli esposti sono crollati del 35 per cento. La convivenza forzata acuisce gli abusi, come hanno notato anche in Cina diverse organizzazioni non governative, e allo stesso tempo costringe al silenzio. Per questo è necessario uno sforzo straordinario che permetta alle vittime di avere canali sicuri e protetti per chiedere aiuto. E garantire interventi immediati.

IL BUIO NELLA RETE
Una presenza ubiquitaria e globale che ha raggiunto picchi mai toccati in precedenza, in questo momento, oltre al virus, sono i social network. La solitudine e l’isolamento di miliardi di persone si sta riversando per sempre più ore al giorno sulle piattaforme che accentrano l’attenzione e la discussione del mondo - Whatsapp, YouTube, Facebook, Twitter, Telegram, Twitch, TikTok, Snapchat. Conversazioni e immagini vagano continue da una quarantena all’altra scavalcando i muri. Sono uno strumento essenziale di comunicazione e di collegamento, certo. Ma mai come ora adulti e soprattutto adolescenti sono esposti anche ai rischi che questa presenza continua e non mediata può comportare. I lockdown hanno portato a un aumento nella diffusione non consensuale di immagini pornografiche: i rischi del revenge porn sono altissimi.

Internet è uno spazio ibrido. Come tutti i luoghi, prende la forma di chi lo crea. E di chi lo abita. La Rete può essere così un porto di relazioni ricche, espressioni libere e possibilità. Ma, esattamente come un condominio o un bar, può diventare il ritrovo di persone vili, che sul web riversano i propri comportamenti malsani nei confronti delle donne e dei più deboli. In Rete, nel branco, queste persone si sentono ancora più impunibili e spavalde. S’affollano così per esempio a commentare personalità pubbliche, attiviste o parlamentari per deriderle con battute a sfondo sessuale – «Sei solo gnocca», «Perizoma please!!», «La aspetto sempre tra sei mesi sulla statale…». Oppure si aggregano in gruppi e chat dove il passatempo è scrivere «troia» o «ti violenterei» sotto le foto di una ragazza. Da questi soggetti la donna non viene mai considerata una persona: per loro è solo un oggetto di cui poter disporre.

Questi meccanismi odiosi vanno bloccati e combattuti subito. Il cambiamento dovrebbe essere imposto a loro, agli uomini che inquinano la Rete usandola come una latrina per i loro peggiori comportamenti. Nel frattempo è importante che le ragazze aumentino la propria consapevolezza su cosa significa condividere un contenuto sul web. Considerandone potenzialità e rischi. La natura delle conversazioni via chat o sui social network può essere percepita come effimera: un commento scritto online, una foto mandata a un amico, una storia pubblicata da una festa... i contenuti sembrano passeggeri. Non è così. Il viavai di comunicazioni a cui siamo esposti si perde spesso in un blob senza memoria, è vero. Ma quello che inviamo o pubblichiamo può essere fermato in qualsiasi momento. E soprattutto può non restare privato, anche se condiviso solo con i conoscenti stretti: ogni fotografia o video che inviamo è un materiale di cui possiamo, potenzialmente, perdere il controllo. Le chat, anche quelle personali, non sono mai sigillate: il destinatario o i destinatari possono inoltrare immediatamente quel contenuto a migliaia di persone.

Perché bisogna ricordarlo? Perché purtroppo succede che foto destinate a una singola persona diventino preda dei branchi. La diffusione online di immagini intime, senza il consenso della persona ritratta, è un reato che può distruggere la vita e l’identità di una persona. L’Italia ha già avuto una vittima: Tiziana. Una donna di trentatré anni che si è suicidata perché non riusciva più a sopportare le continue derisioni, allusioni e offese dopo che un suo ex fidanzato aveva pubblicato in Rete un video pornografico che la riguardava. È importante distinguere qui i due elementi. A essere criminale è stata la decisione del suo ex di condividere il video, senza il suo consenso. Il reato lo compie chi pubblica un contenuto intimo senza chiedere l’autorizzazione della persona che si vede così esposta.

Non c’è niente di sbagliato, invece, o di strano nel volersi fare una foto o filmare durante un rapporto sessuale, se tutte le persone coinvolte sono consapevoli e consenzienti. Fa parte delle scelte personali. A distruggere la vita di Tiziana non è stato aver girato quel video. Ma il fatto che un uomo abbia deciso di renderlo pubblico contro di lei. Buttandola in pasto al branco. Per questo bisogna fare molta attenzione alle persone con cui si condivide la propria intimità, al rispetto di cui sono capaci, tenendo sempre presenti i destinatari delle immagini realizzate. Contro il revenge porn, come è chiamato il reato che ha spinto Tiziana al suicidio, ci sono nuove leggi, ma i percorsi per ottenere giustizia restano spesso contorti e lenti, e le tutele rischiano di entrare in azione quando ormai è troppo tardi.

Bisogna reagire subito: pretendere dalle piattaforme la rimozione dei contenuti, denunciare l’accaduto, non cedere mai ai ricatti. E, preventivamente, essere consapevoli. Ovvero riflettere prima di inviare contenuti. E chiedere sempre agli altri se sono d’accordo prima di pubblicare qualcosa che li riguarda. La paura dei commenti non deve diventare un freno all’espressione di sé, se è praticata in modo autonomo e libero da condizionamenti. I social network, racconta il collettivo Ippolita, gruppo di ricerca indipendente sulle tecnologie, sono luoghi dove «la reputazione dell’individuo è sottoposta alla minaccia continua della gogna mediatica». A questa minaccia non bisogna cedere. Ma pretendere che la gogna venga abolita.

LA TECNOLOGIA NON È NEUTRALE
«Il futuro della tecnologia e della società dipende da come sapremo dare seguito alle richieste di giustizia. Abbiamo il dovere di indicare i responsabili. Di chiamare a rispondere delle loro azioni tutti coloro che perpetuano, amplificano e rendono possibili l’odio, il dolore e la crudeltà. Ma la responsabilizzazione senza trasformazione è semplicemente spettacolo. Dobbiamo a noi stesse e a tutti coloro che sono stati feriti il dovere di concentrarci sulle radici del problema. Lo dobbiamo anche a quanti cercano di non costruire certe tecnologie perché il costo umano sarebbe troppo grande».

Questo è soltanto un passaggio del discorso con cui Danah Boyd, una delle più importanti studiose americane di tecnologie e social media, ha accettato nel settembre 2019 il premio Pioneer and Barlow della Electronic Frontier Foundation. Il testo integrale (www.zephoria.org/thoughts) è una riflessione potente sulla non neutralità dell’innovazione, sulla condiscendenza di certi ambienti, economici e culturali, nei confronti di chi abusa. E sulla possibilità di cambiare.

VERSO NUOVE BATTAGLIE
È il 25 novembre del 2019. Sopra Santiago, la capitale del Cile, il sole è velato. Da più di un mese il Paese è in rivolta. Milioni di persone stanno scendendo in piazza contro il governo. La protesta, innescata dall’aumento del prezzo dei biglietti per i mezzi pubblici, è diventata presto un fronte comune di denuncia contro il carovita e contro le crescenti disuguaglianze economiche e sociali del Paese sudamericano. I giovani prendono le strade. Lo Stato risponde con esercito e carri armati, impone il coprifuoco. I diritti democratici vacillano. Negli scontri muoiono almeno quindici persone.

Il 25 novembre è la Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Un centinaio di ragazze e ragazzi sfilano su un marciapiede. Arrivano a Plaza Italia, nel cuore di Santiago. Si dispongono in riga, uniti. L’appuntamento è stato organizzato dal collettivo Las Tesis. Le attiviste si coprono gli occhi con una benda. Alzano la testa. E iniziano a cantare. Il testo è un inno-denuncia scritto per l’occasione. Si intitola “Un violador en tu camino” e inizia così: «El patriarcado es un juez que nos juzga por nacer y nuestro castigo es la violencia que no ves / [...]Es feminicidio / Impunidad para el asesino / Es la desaparición / Es la violación / Y la culpa no era mía, ni dónde estaba, ni cómo vestía / El violador eras tú». Tradotto: «Il patriarcato è un giudice, che ci giudica per il fatto stesso di essere nate, e il nostro castigo è la violenza che non vedi / [...]È il femminicidio / L’impunità per il mio assassino / È la scomparsa / È lo stupro / E la colpa non era mia, né di dove stavo, né di come ero vestita / Lo stupratore eri tu».

Le ragazze ballano e cantano prima che arrivi la polizia a disperdere la folla con i lacrimogeni. Il video della performance, pubblicato in Rete, viene visto e condiviso milioni e milioni di volte. In pochi giorni il canto di protesta travasa in Italia, Francia, Israele, Germania, Spagna, Stati Uniti, Russia, Turchia, dove viene portato nelle piazze, diventando un inno femminista di risposta alla violenza, anche quella istituzionalizzata. In Messico e in Argentina, migliaia di donne si riuniscono sotto i palazzi del potere gridando «Un violador en mi camino».

Sono passati cinque anni da quando il 3 giugno del 2015 nasceva, proprio in Argentina, il movimento internazionale «Ni una menos», Non una di meno, una protesta dal basso contro la violenza di genere che è diventata presto una piattaforma internazionale e locale unica nelle forme e nei modi, riuscendo a tenere legate nello stesso fronte comune le lotte per la parità di genere e quelle contro la disuguaglianza, la precarietà, il razzismo e le discriminazioni. Perché è inaccettabile continuare a contare le donne uccise per il solo fatto di essere donne o corpi dissidenti. Ma occorre muoversi e difendersi, insieme.

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Il testo pubblicato è tratto da “Contro ogni violenza sulle donne” di Francesca Sironi, illustrazioni di Susanna Gentili, in uscita per Centauria Libri (pp. 128, € 14,90) in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne del 25 novembre