Conza, Teora, Sant’Angelo. Paesi ancora in lutto per i tremila morti del sisma del 23 novembre 1980. E per i quattromila abitanti che ogni anno lasciano questa terra. Viaggio nei ricordi di chi allora non era nato. Ma è cresciuto all'ombra della tragedia

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Nella vecchia Conza le case sono mangiate dalla vegetazione – gli alberi entrano tra i vetri spaccati delle finestre. Sembra di girare tra i ruderi di una città antichissima. Gli unici ad abitarla sono giovani rifugiati, ospiti di un centro tra gli edifici pericolanti. Nudo nel sole c’è un muro rivestito di piastrelle da bagno. Intorno, stanze al pianterreno con la carta da parati macchiata, scale che non vanno da nessuna parte, saracinesche che non chiudono niente. Tra tutti i paesi che alle 19,34 di domenica 23 novembre 1980 erano all’interno del cratere sismico, Conza è il solo a esistere altrove, ricostruito ex novo in un altro sito.

Il padre di Gerardina aveva un figlio che morì sotto il crollo della cattedrale, un edificio costruito dopo un altro terremoto (1732) e che oggi ha giusto qualche parete – il cielo sopra. Lei porta il nome di quel fratello mai conosciuto, e la tragedia familiare ha segnato la sua vita anche se è nata nel 1985: «Quel legame non mi permette di andarmene», dice.

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Irpinia, il terremoto si è portato via i giovani di oggi
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Nel paese ci saliva a giocare da ragazzina con gli amici: «Era un luogo di scoperta. Cercavamo ciò che era stato lasciato nelle case abbandonate, magari album di figurine o pattini, che diventavano nostri. Anche scheletri, una volta, ammassati in un bagno. Se trovavamo un quaderno, leggevamo il nome del proprietario sulla prima pagina e tornavamo al paese nuovo per controllare se era sopravvissuto o no». Del paese nuovo ricorda «il fango e il fatto che non aveva un’anima». C’era poi lo smarrimento per le case di colpo grandi, molto distanziate. «Lo stesso era tra le persone».

Gerardina ama i puzzle, che poi è mettere insieme i pezzi. «Una catastrofe che coinvolge tutti si supera con uno sforzo collettivo» dice, ma aggiunge di soffrire l’assenza di persone della sua età. In effetti in questi comuni dell’Alta Irpinia i giovani sono andati via e in generale lo spopolamento è tangibile: pare sempre la controra, i cani randagi riposano sulle strade vuote. Antonella, presidente della Proloco di Conza, ha una spiegazione lineare: «Chi perse tutto nel terremoto se ne andò, chi rimase aveva un lavoro e la possibilità di far studiare i figli. Chi ha studiato, poi, è andato via». Secondo lei il terremoto è stato al contempo «un simbolo di cambiamento e una cesura, come il prima di Cristo e il dopo Cristo».
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L’anno in cui nacque Antonella, il 1981, a Conza ci fu un boom demografico. «Le nostre nascite sono state accolte come un segno di vita e tutta questa speranza ha pesato su di noi», conferma Sara, classe 1985. Da psicoanalista, sottolinea la presenza del paese vecchio, che incombe da un’altura sulla nuova Conza, «a ricordarci sempre il prima e il dopo». La magnitudo 6.9 della scala Richter, il movimento sia ondulatorio che sussultorio, fecero cadere o almeno destabilizzarono qualunque punto di riferimento. «Oggi si montano le tende per l’aiuto psicologico, fortunatamente esiste una psicologia dell’emergenza, ma da noi il sostegno fu solo pratico. Per questo dobbiamo ascoltare quelli che hanno vissuto il trauma in prima persona: perché hanno sempre bisogno di esprimere quel dolore, e il nostro compito generazionale è raccoglierlo».

Come la nebbia di queste mattine d’autunno, il trauma è ancora sospeso tra gli edifici bassi e sulle pesanti infrastrutture che sembrano eccessive per un territorio così. Quel minuto e mezzo del 1980 sconvolse le province di Avellino, Salerno e Potenza, ma schiaffeggiò l’Italia tutta. Per l’impreparazione dei soccorsi, che spinse poi a creare la Protezione Civile. Per la speculazione di chi si arricchì sui corpi di 3 mila morti e sul dolore di quasi 400 mila persone senza più casa.
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La generazione Ottanta, destinata a ricominciare e a ricostruire qualcosa di durevole, è cresciuta in insediamenti provvisori. Solo più avanti, nell’adolescenza o dopo ancora, ha avuto una casa in muratura e un paese vero e proprio. Oggi i prefabbricati sono abitati da un altro tipo di persone in difficoltà, i terremotati economici. Oppure si affittano come case-vacanze per staccare nel weekend.

Allora, la criticità delle condizioni era attenuata dal calore di sentirsi comunità e dalla consapevolezza che la situazione fosse temporanea. «Nei prefabbricati la vita era simile al paese vecchio, ma i nuovi paesi scombussolarono le abitudini: non c’era più la vita di vicinato, non si metteva più la sedia nel vicolo. Ognuno aveva il suo giardinetto», dice Antonella. «Quindi noi come generazione abbiamo cercato di costruire spazi aggregativi. Non siamo però riusciti a creare una sinergia comune: oggi tutto si basa sull’iniziativa individuale. E non a caso la politica locale è ancora in mano alle generazioni precedenti».

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Quei miei paesi postumi impietriti dal terremoto
20/11/2020
Stefano, classe 1983, è nato e cresciuto fino ai ventidue anni in un prefabbricato di Teora. Con la sua famiglia, in sei, dentro 40 metri quadrati. «Sembra strano ma è stato il periodo più bello della mia vita. Il fatto è che i nostri genitori non ci hanno mai fatto capire cosa fosse successo, ci hanno messo come in una culla». L’insediamento era suddiviso in più parti. Quella in cemento si chiamava “Zamberletti”, in omaggio al padre della Protezione Civile, e sta ancora in piedi. Quella prevalente, in legno, detta “Borgo Monaco” perché costruita dai tedeschi, venne smontata e mandata in Umbria per alloggiare i terremotati del 1997.

«Poi, sono uscito e mi sono ritrovato in un paese morto», dice Stefano. Abituato a quella densità e al forte senso comunitario, gli spazi diventarono larghi e vuoti. Teora è un posto non banale, ogni tanto arriva qualche universitario a studiarne il centro storico ricostruito su progetto di Giorgio Grassi, ma è pure deserto. Se prima del terremoto lo popolavano 2 mila abitanti, oggi nei fatti i numeri sono dimezzati.

Come in tutto il territorio, più che le conseguenze del sisma (che qui danneggiò oltre il 90 per cento dell’abitato), responsabile sembra essere soprattutto la piaga dello spopolamento di un’area interna del Mezzogiorno - l’osso del Sud che Manlio Rossi-Doria contrapponeva alla polpa delle zone più sviluppate. Un’emorragia: solo nell’ultimo anno l’Irpinia ha perso 4 mila abitanti, come ha notato Generoso Picone (autore con Fiorentino e Ricciardi di un saggio sul terremoto appena pubblicato da Donzelli). L’anno scorso a Teora è stata lanciata un’iniziativa per attirare abitanti: una casa al costo di un euro. In paese si dice che il tentativo sia abbastanza riuscito e almeno consente di non chiudere le scuole.

Quando vennero rimosse le macerie, dal suolo della vecchia Conza emerse un foro romano sconosciuto. Lo stesso accadde con quella che si presume fosse la prima cattedrale di Sant’Angelo dei Lombardi, il paese dove il terremoto del 1980 fece più vittime e dove Ramona è cresciuta giocando nelle case in costruzione. Lei è nata appena cinque giorni dopo il sisma ed è stata battezzata in una chiesa di lamiera, nello spazio ingombro di prefabbricati dove oggi si spalanca la piazza principale. «Ogni 23 novembre alle 19,30 andavamo al cimitero come si va il giorno dei morti. E non per dovere ma perché così sentiva la comunità, o ciò che ne restava. In quegli anni era un lutto perenne, non c’erano feste pubbliche e non c’erano processioni. Noi intanto crescevamo col racconto continuo di quanto fosse meglio prima».

Il terremoto buttò giù il palazzo più nuovo del paese, «quello che dava un’idea di crescita, di futuro. Fu dove si contarono più morti a Sant’Angelo, e si decise di non ricostruire niente al suo posto. Il vuoto che c’è adesso, simbolicamente rappresenta il vuoto di prospettiva lasciato dal sisma». Quarant’anni dopo, lei è un’imprenditrice che promuove il territorio e altri sismi hanno colpito l’Italia: «Con quello dell’Aquila, qua vidi una doppia reazione: c’era chi non voleva riaprire la ferita e chi solidarizzò. La verità è che il terremoto continua a fare paura. Secondo me non possiamo rimuovere la catastrofe ma nemmeno portarcela addosso come un peso».

Se la cesura divide il prima dal dopo, va a finire che le macerie soffocano ancora la terra e che quarant’anni non sono niente. «Il dopo-sisma è un’unica finestra temporale, un lunghissimo periodo che da allora arriva a oggi. Chi ha vissuto quel giorno, non ne ha capito la portata storica. La nostra generazione è la prima che si è resa conto. Anzi, che si sta rendendo conto», dice Ramona.

Lasciandosi dietro la cattedrale di Sant’Angelo e percorrendo mezz’ora di auto verso la Puglia, in direzione opposta alle pale eoliche che accerchiano Conza e Teora, avvistando ogni tanto i prefabbricati dove una generazione ha passato l’infanzia, compare una chiesa nei pressi di Bisaccia che pare un astronave o un palazzetto dello sport. Intorno, si allunga con le sue linee curve un paese nuovo, tirato su in seguito al terremoto e indicato come “Piano Regolatore”. A fermarli oggi i giovani annuiscono, dopo quarant’anni sembra un nome come un altro: «Sono di Piano Regolatore», dicono.