
In realtà tutto è stato affidato alla buona volontà e all’improvvisazione di studenti e soprattutto di docenti, non solo costretti ad arrangiarsi su piattaforme private come Google per tenere le proprie lezioni, ma bersagliati quotidianamente da messaggi oscuri, pieni di sigle criptiche, termini indecifrabili, regole contraddittorie. No, non è andata bene per l’università. E c’è da ritenere che il peggio debba ancora venire.
Sono aumentate a dismisura le procedure burocratiche e le imposizioni normative, quegli schemi rigidi che soffocano la libertà di insegnamento, mentre tutta l’attenzione è rivolta ai dispositivi tecnologici, panacea di ogni problema. Ecco la “dad”, la didattica a distanza: inviti gli studenti su Meet, una sorta di classe fittizia, e tutto è magicamente risolto. Le cose, però, stanno ben diversamente: sullo schermo del computer si avvicendano i volti degli studenti - qualcuno è assonnato, qualcuno è in cucina, un altro in giardino (perché no?), altri ancora non riescono a connettersi. L’interazione, cuore dell’insegnamento universitario, è pressoché inesistente, la concentrazione è bassa. D’altronde la lezione sarà anche registrata; si potrà risentire e, anzi, condividere qui e là. Un video come un altro. Sarebbe allora il caso di interrogarsi sul futuro della lezione nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
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Non bisogna farsi fuorviare da termini altisonanti come “telepresenza” nella fase 2, “modalità mista” nella fase 3. Se è probabile che la scuola, anche per pressioni economiche, riaprirà in settembre, l’università resterà evidentemente chiusa. Come il virus colpisce i più deboli, così la pandemia avrà effetti sugli atenei statali di massa. Tanto più se si trovano in edifici antichi i cui spazi non si prestano al distanziamento sociale. Si salveranno le università private che hanno fondi, mezzi tecnici, infrastrutture digitali, e che soprattutto rispondono al modello aziendale e alle esigenze del mercato. Ma che ne sarà della nostra Università?
Il rischio è un declino irreversibile. Assicurare lezioni a distanza ed esami non significa salvaguardare l’università, che non è né una fabbrica di saperi né un esamificio. Manca la vita universitaria in tutta la sua insostituibile ricchezza, la sua vivacità, la sua effervescenza. È possibile che molti studenti, dispersi e isolati, abbandoneranno del tutto il percorso accademico. L’iscrizione mirerà solo a conseguire un diploma, uno scopo esteriore, mentre lo studio sarà sempre più strumentale. Ne risentiranno le materie umanistiche. Lo svuotamento dell’università e la sua alterazione sono già in atto.
Forse finirà per imporsi il modello tecno-aziendale. Punteggi, valutazioni, rendicontazioni, iperaccademismo. Come durante la pandemia è venuto meno lo spazio pubblico, così il fantasma dell’università aleggia solo tra gli schermi.
Non riducibile a cifre e tabelle, l’università è il nucleo portante della vita culturale e il laboratorio della politica. Di più: è il luogo per eccellenza della resistenza critica, della dissidenza e, se necessario, della disobbedienza civile. Basta guardare al suo passato recente. Ed è bene dirlo a chiare lettere: la perdita di questo luogo avrebbe conseguenze devastanti anche per la democrazia. Ecco perché è tempo di una controffensiva che tenti un rilancio creativo.