Rifiuti radioattivi, fertilizzanti, scorie di alluminio. Che contaminano terreno, acqua e aria. Causano un record nei casi di tumori e leucemie. E sembrano uccidere anche cani e gatti. È così da anni. Ma ora è il momento di cambiare

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La prima medicina che Cristina dà alle sue pazienti è un abbraccio. «Sì, le abbraccio forte», dice lei: «Ma adesso, con il coronavirus ancora in giro, non so come farò». Cristina Furnari, 28 anni, non è un medico. Nel suo studio di estetista, in via Noce 13 nel quartiere Chiesanuova a Brescia, cura l’aspetto delle tante donne giovani e meno giovani che lottano contro il cancro. Ora che il Covid-19 lascia il tempo per riflettere, in Lombardia si torna a fare i conti con l’epidemia di sempre: l’inquinamento del cielo, della terra e dell’acqua.

Il virus Sars-CoV-2 nel mondo e in Italia ha colpito soprattutto dove le vie respiratorie di adulti e bambini erano già provate da polveri sottili e diossido di azoto: da Wuhan in Cina alla Pianura Padana d’inverno si respira la stessa aria. Ma a Brescia, come in tutte le zone dove fabbriche e coltivazioni convivono, le sostanze tossiche vanno oltre. Penetrano nel sottosuolo, contaminano la prima falda che alimenta l’irrigazione nei campi. E riappaiono nella catena alimentare. Tutta la provincia bresciana è contemporaneamente assediata dai rifiuti industriali e dai fertilizzanti agricoli.

Queste campagne, così verdi e fiorite in primavera con il loro cielo grande e la vista mozzafiato sulle Prealpi, non si fanno mancare nulla: Brescia è anche la provincia dove si concentra il maggior numero di siti inquinati da rifiuti radioattivi. Quando alla fine dell’impero sovietico la Russia ha svenduto i ferri arrugginiti delle sue infrastrutture militari e civili, le acciaierie della città hanno riempito gli altiforni di rottami per trasformarli in barre e tubi. Ma parte di quelle tonnellate di metallo proveniva da installazioni o impieghi a contatto con radionuclidi.
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Alla disgregazione dell’Urss sono poi seguiti i commerci mondiali della globalizzazione. E il risultato della fusione accidentale di lamiere contaminate o addirittura di sorgenti radioattive è oggi elencato nell’inventario dell’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione. L’ultimo aggiornamento del dicembre 2019 riporta ben nove “eventi incidentali” in provincia di Brescia dal 1990 al 2018 sui diciotto avvenuti in Italia. Una massa totale di circa 85.533 tonnellate di materiali e rifiuti derivanti dalla successiva bonifica: con una radioattività complessiva stimata in 1216 Giga Becquerel. Un Becquerel è il sistema di misura ed equivale all’attività di un radionuclide che ha un decadimento al secondo. A ogni disintegrazione, viene emessa energia.

La maggiore radioattività è concentrata in due siti inquinati da cesio 137. Uno è l’ex cava Piccinelli, a ridosso dei laghi del Parco delle cave alla periferia di Brescia, dove 1.800 tonnellate di scorie di fonderia scoperte nel 1998 hanno lasciato una radioattività di 120 Giga Becquerel. L’altro è la discarica Capra, a Capriano del Colle, tra fattorie e campi coltivati nel parco agricolo regionale Monte Netto: dal 1990 qui 82.500 tonnellate di scorie saline, alluminio e terra raggiungono ancora oggi i 1.000 Giga Becquerel, ovvero mille miliardi di decadimenti al secondo. Come paragone: è poco meno della metà dell’attività dei rifiuti e delle sorgenti dismesse inventariate nel 2019 nella centrale nucleare di Caorso. In entrambi i siti bresciani, il terreno di copertura impedisce la dispersione di polvere radioattiva in atmosfera. La preoccupazione riguarda le infiltrazioni di acqua piovana che potrebbe contaminarsi e trascinare il cesio fino alla falda superficiale.

La Regione ha smentito che le scorie radioattive possano finire nei rubinetti, poiché l’acqua potabile viene pompata da profondità maggiori, anche se non tutti i geologi sono dello stesso parere. Ma quello della falda superficiale è comunque lo strato a più stretto contatto con la rete di canali irrigui della pianura. A questo si aggiungono i decenni di diossine e policlorobifenili finiti nel suolo di Brescia dagli impianti dell’industria chimica Caffaro, le tonnellate di fertilizzanti disperse nei campi, i vapori del principale inceneritore di rifiuti urbani, le scorie tossiche nascoste nei terrapieni delle nuove tangenziali, i gas di scarico delle autostrade e le grandi discariche autorizzate a cielo aperto intorno all’aeroporto di Montichiari. Un paesaggio, questo, che ha dato alla zona il soprannome di Terra dei buchi, con paure nella popolazione non diverse da quelle provocate in Campania dalla Terra dei fuochi.

I primati economici nell’industria pesante e nell’agricoltura intensiva hanno le loro evitabili conseguenze. Cristina Furnari ha cominciato a lavorare giovanissima come estetista. Si è poi specializzata in estetica oncologica per necessità: «Una zia e la mia nonna si sono ammalate insieme», racconta: «Durante la chemio perdevano i capelli e le unghie. Mi sono chiesta cosa potessi fare per loro. Allora avevo una cliente ogni tanto che si ammalava. Ora sono aumentate. Vengono da me e mi dicono: mi hanno trovato un tumore, farò intervento e chemio. All’inizio non sapevo cosa potevo e non potevo fare. Poi ho seguito un corso di specializzazione e mi si è aperto un mondo».

Secondo uno studio dell’azienda sanitaria pubblicato nel 2019, “Incidenza tumorale nell’Ats di Brescia: andamento temporale e caratterizzazione territoriale 1999-2015”, l’incidenza è quasi sempre al di sopra della media nazionale e macroregionale, pur nel contesto di una lenta riduzione dei casi dovuta soprattutto alle campagne di prevenzione.

Le differenze sono evidenti se si analizza l’andamento per singoli tipi: i tumori della testa e del collo colpiscono tra i bresciani 34,6 uomini e 9,9 donne ogni centomila abitanti contro una media del Nord Italia di 27,8 e 7; i tumori allo stomaco 40,6 e 20,5 contro i 33,7 e 16,7; i tumori al fegato 42,5 e 13,6 contro 31,6 e 10,3; i tumori al pancreas 27,9 e 18,3 contro 24,1 e 18. Sono invece poco meno della media i tumori al polmone con un tasso di 104,6 e 32,9 contro 107 e 35,1 del Nord Italia. Ma per i tumori al seno la differenza torna a essere netta: nel periodo 2010-2015 nella zona di Brescia hanno colpito 170,6 donne ogni centomila, contro la media di 161,9 al Nord, 141,7 al Centro e 124,9 al Sud. Mentre per gli uomini le leucemie salgono a 21,3 casi ogni centomila abitanti contro 16,8 della media al Nord, 17,8 al Centro e 17,1 al Sud. E nelle donne i tumori alla tiroide raggiungono i 35,4 casi, contro 25,6 del Nord, 29,6 del Centro e 27,2 del Sud.

«Quando vengono da me e mi fanno vedere che hanno perso i capelli, io me le abbraccio tutte, a volte piangiamo insieme. Subito dopo cominciamo il colloquio, chiedo di cosa hanno bisogno», spiega Cristina Furnari: «Mi consulto con il loro medico per capire cosa si può fare. Collaboro con la Lega italiana per la lotta contro i tumori. Il supporto psicologico che diamo è forte. La cosa che fa più male in una donna è la perdita di capelli. Mi dicono: guarda, si vede che sono malata. Il nostro supporto alleggerisce gli effetti collaterali, aiuta a vedersi belle. Il contatto della mia mano coperta dai guanti sulla loro pelle è un legame intenso. Ho a che fare con la loro speranza e la lotta. Alla fine piangiamo insieme di gioia perché è arrivata la vittoria. Altre volte piangiamo e basta. Ma quello che vedo oggi sono età sempre più basse».

Le conseguenze dell’inquinamento in provincia di Brescia si osservano anche negli animali da compagnia, come cani e gatti. «Servirebbero studi mirati per verificare il legame diretto», avverte Anna Basso, 35 anni, veterinaria di Bagnolo Mella, paese a otto chilometri da Capriano del Colle: «Ma la sensazione è che negli ultimi anni siano aumentati nei cani e nei gatti i tumori epatici e polmonari e i linfomi. Anche le forme allergiche sono in crescita e non solo nei cani di razza». Claudio Giacoboni, 38 anni, è un veterinario che si occupa di oncologia negli animali: «La vita più breve di cani e gatti», spiega, «rappresenta un modello per indagare l’accumulo di sostanze potenzialmente tossiche per metalli come cadmio e piombo oppure, negli animali domestici e da reddito, di erbicidi e pesticidi. Notiamo nel tempo un aumento della casistica oncologica. È anche vero che la medicina veterinaria ha aumentato la capacità diagnostica. Per questo servirebbe uno studio specifico, ma finora non esistono pubblicazioni di questo tipo sulla zona di Brescia».

Gli animali da compagnia vivono a stretto contatto con il terreno e per questo potrebbero dare il primo allarme sulla qualità dell’ambiente in cui respirano e mangiano i loro padroni. Uomini e donne infatti sviluppano infiammazioni, allergie e tumori in tempi molto più lunghi. Soprattutto se con l’inquinamento si è costretti a convivere. In via Cerca a Brescia, a pochi metri dalla ex cava Piccinelli contaminata da cesio 137, è stato addirittura costruito il parcheggio per i visitatori del Parco delle cave. «Qualche anno fa hanno trasferito i fusti con le scorie radioattive in uno dei depositi dell’Enea», racconta Alessandra Cristini, 60 anni, tra le fondatrici di uno dei comitati che si battono per la bonifica dell’area: «Ma il terreno contaminato è rimasto lì. L’ultima volta i teli sono stati sostituiti nel 2012 dopo la nostra segnalazione al Comune. Da anni denunciamo che i piezometri messi per misurare il livello della falda sono troppo pochi e spesso fuori uso. Ma nessuno ci risponde. La radioattività nell’acqua non viene controllata e quel cesio oggi potrebbe essere arrivato ovunque».

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