L’esame del Dna ignorato. Le foto della polizia scomparse. La causa civile decisa dai colleghi della toga interessata, che ha aperto un trust per salvare il patrimonio di famiglia. E i genitori di una vittima ora si appellano alla Corte Europea

Ho fiducia nella giustizia. Lo dicono tutti i cittadini perbene, e perfino qualche malintenzionato, quando si trovano coinvolti in guai giudiziari. E hanno ragione. Perché nelle democrazie nessuno è al di sopra della legge. E la macchina della giustizia è organizzata per auto-correggersi: ci sono tre gradi di giudizio, ogni sentenza va motivata e ricontrollata da altri magistrati per ridurre al minimo gli errori. Questo articolo dell’Espresso, infatti, pone solo una domanda: come facciamo a spiegare al signor Giorgio Tindaci e a sua moglie Lorenza che devono avere ancora fiducia nella giustizia?

I due coniugi hanno perso il loro unico figlio, Mattia, a 18 anni, in un terribile incidente stradale. Vivono a Padova, hanno un negozio d’abbigliamento nel centro storico. Il loro caso giudiziario, iniziato 16 anni fa, non si è ancora concluso. Un «calvario legale», lo definiscono, che li tiene inchiodati a quel lutto incancellabile.

 

La sera del 5 aprile 2005 Mattia è in macchina con quattro coetanei. Erano partiti da Padova sull’auto di Francesca, l’unica ragazza. In provincia di Treviso, lei cede il volante a un amico e si siede di fianco al guidatore, in braccio a un altro ragazzo, Alessandro. Sono le 23 circa. Fuori dai centri abitati, in località Riese Pio X, l’auto sbanda e si schianta contro un platano. Tre ragazzi muoiono sul colpo. Con Mattia perdono la vita i fratelli Vittorio e Nicola De Leo, figli di uno psichiatra di fama internazionale. Francesca e Alessandro restano feriti, lui gravemente, ma si salvano. I fatti che nessuno contesta si esauriscono qui.

 

La sciagura divide subito le famiglie. Quella notte nessuno avverte i genitori di Mattia, che cominciano a preoccuparsi quando vedono arrivare un’auto della polizia a casa del professore, che è un loro vicino. Allora scendono in strada, chiedono inutilmente di Mattia, lo chiamano al telefonino. In preda all’angoscia, iniziano un viaggio della disperazione tra gli ospedali veneti. E trovano la salma del figlio all’obitorio di Castelfranco Veneto, dove già sono presenti gli altri genitori. La signora Lorenza dice di non poter dimenticare le parole che le avrebbe detto in un successivo colloquio il padre di Francesca, forse per spiegare il silenzio delle autorità: «Il vostro era il figlio meno importante». Una frase infelice, che ai genitori di Mattia, oggi, sembra quasi un sigillo del destino giudiziario che li attende.

 

Dei cinque ragazzi, l’unica con la patente era Francesca, che è figlia di un chirurgo ortopedico, Antonio Volpe, e di un’importante giudice penale di Venezia, Marta Paccagnella, che ha lavorato in tribunale e in corte d’appello. A indagare è la Procura di Treviso. Il rapporto della locale polizia stradale identifica il conducente in Mattia Tindaci, che aveva il foglio rosa. A confermarlo è proprio Francesca. Ma i genitori di Mattia non ci credono, spiegano che aveva passato solo il test scritto, «ma non aveva mai guidato un’auto». E aggiungono che uno dei soccorritori avrebbe fatto il nome di un altro dei giovani deceduti, anche lui col foglio rosa. A quel punto il pm, Giovanni Valmassoi, ordina un esame del Dna sulle tracce di sangue trovate sulla cintura del guidatore. La consulenza, affidata alla dottoressa Luciana Caenazzo dell’Istituto di medicina legale di Padova, esclude con certezza che il materiale genetico fosse di Mattia. Quindi il magistrato archivia il caso con un verdetto dubitativo, stabilendo solo che il guidatore era uno dei ragazzi morti. E formula invece un’accusa di omesso controllo a carico di Francesca Volpe, per aver affidato a un giovane senza patente la sua auto di famiglia, di proprietà del padre. La ragazza confessa di aver sbagliato e ottiene il patteggiamento.

Poi si aprono i processi civili, in un clima di guerra tra famiglie in lutto. Se il guidatore è senza patente, le assicurazioni possono rifiutare i risarcimenti: chi perde la causa, rischia un disastro economico. I genitori di Mattia, assistiti dagli avvocati Vieri e Francesca Tolomei, evidenziano in tutte le fasi l’importanza della prova del Dna. Ma la sentenza di primo grado, emessa da un giudice singolo (monocratico) di Treviso, non ne tiene conto. Il test genetico non viene ripetuto né contraddetto. E il verdetto identifica comunque Mattia come guidatore, evidenziando solo gli elementi contrari.

In secondo grado, i giudici di Venezia ordinano finalmente un nuovo esame del Dna, alla stessa dottoressa Caenazzo. L’esperta però risponde che è impossibile rifarlo, perché il materiale genetico era scarso ed è stato consumato nel test precedente. Visto che nessuno lo ha contestato, gli avvocati della famiglia Tindaci chiedono di confrontarlo con il Dna dei genitori dei due fratelli De Leo, che correttamente si dichiarano pronti. Invece la corte d’appello, con una mossa a sorpresa, dichiara la causa matura per la decisione. E il 10 aprile 2019 conferma la condanna dei familiari di Mattia.

 

Anche Francesca Volpe e suo padre (come proprietario dell’auto) vengono obbligati a rimborsare le vittime. Ma nel loro caso sono assistiti dall’assicurazione, che copre l’intero danno. Per cui padre e figlia, nonostante il patteggiamento, non sborsano nulla.

Ad aggravare il senso d’ingiustizia, per i genitori di Mattia, è il giallo delle fotografie. Nel gennaio 2013, otto anni dopo l’incidente, un agente della polizia stradale rivela in tribunale di aver scattato, stampato e riversato su un cd le foto delle vittime, con il volto del guidatore. Una circostanza ignorata dal pm. I genitori di Mattia riescono a farsi autorizzare la ricerca di quelle foto solo cinque anni dopo, dai giudici d’appello. L’indomani papà Tindaci si presenta con l’avvocato nella sede della polizia di Treviso. E registra un agente dell’ufficio incidenti mentre spiega, imbarazzato, che il cd non c’è più: è «esploso» dentro un computer, durante un tentativo di lettura. E le foto su carta? Sparite anche quelle. Un altro agente le ha cestinate perché «il fascicolo era troppo grosso e non ci stava nell’armadio».
 

Nel febbraio 2018 i genitori di Mattia denunciano alla Procura di Treviso la sparizione delle foto: l’esposto viene presentato da un avvocato di Bologna, Mariano Mancini, perché non si trova un penalista veneto disposto a firmarlo. Il capo della Procura, in quel momento, è Michele Dalla Costa, che è il marito di Ippolita Ghedini, l’avvocata che assiste Francesca (la figlia della giudice penale) nelle cause civili. Della denuncia però si occupa un altro magistrato, per cui non esistono problemi di astensione. Alla fine il pm esclude reati: non ci sono prove di distruzione «intenzionale». Il 15 novembre 2019 il gip di Treviso, Piera De Stefani, convalida l’archiviazione, segnalando però «scarsa diligenza e perizia» nelle indagini di polizia e «profili opachi nella trasmissione e conservazione dei dati».

 

Come la prova del Dna, anche la scomparsa delle foto non ha ripercussioni sulle sentenze civili. Ben diverso è il trattamento della principale prova a carico di Mattia: una ricostruzione firmata da Francesca Volpe nell’ottobre 2005, quando era ancora indagata, in una lettera di scuse indirizzata ai genitori dei fratelli De Leo. Nei processi penali l’imputato ha diritto di tacere, ma se accusa altri deve farsi contro-interrogare. Francesca invece non è stata sentita neppure dopo il patteggiamento. Nel gennaio 2006, infatti, il suo penalista, il professor Piero Longo, ha spiegato agli inquirenti che la sua assistita, «secondo l’opinione dei medici curanti, versa in una situazione di preoccupante instabilità psicologica dovuta al trauma emotivo dell’incidente», per cui è «fortemente inopportuno costringerla a rivivere un lutto che non ha superato».

Ora, dopo altri due anni perduti nel tentativo di ottenere una revisione della sentenza d’appello, i genitori di Mattia affidano le loro ultime speranze alla Cassazione. E chiedono di far intervenire la Corte di giustizia europea. Il ricorso elenca tutte le incongruenze del caso, segnalando che l’unica perizia fu affidata a un ingegnere, non a un medico legale, senza disporre autopsie e neppure una radiografia. In questo quadro, i legali sottolineano che la madre di Francesca era giudice dello stesso distretto di corte d’appello (e dunque collega) dei magistrati che hanno deciso tutte le cause. E dal 2008 al 2012 è stata eletta nel consiglio giudiziario, l’articolazione locale del Csm, che ha poteri di valutazione su tutte le toghe del distretto. Almeno nel 2011, tra i magistrati esaminati, c’era anche il giudice di Treviso che decise la prima sentenza civile. Mentre il verdetto d’appello è firmato solo da uno dei tre giudici del collegio, come presidente, relatore ed estensore.

 

Per collegare la magistrata penale, da poco in pensione, alle cause civili, gli avvocati allegano l’atto costitutivo di un trust: un fondo costituito da Antonio Volpe e Marta Paccagnella il 5 giugno 2007, poco dopo la prima citazione civile contro lui e la figlia. Il trust è sottoposto alle norme dell’isola di Jersey, gestisce due proprietà immobiliari e le rende «non aggredibili dai creditori». A beneficiarne, a 30 anni, saranno i tre figli, tra cui Francesca.

Detto questo, i legali chiedono alla Cassazione e alla Corte europea di imporre nuove regole di imparzialità dei magistrati, per impedire che le cause che coinvolgono i familiari di un giudice possano essere decise da colleghi dello stesso distretto, almeno quando l’interessato fa parte del consiglio giudiziario. Per i genitori di Mattia, «è una questione di giustizia che riguarda tutti».

 

L’Espresso, per chiarire il caso, ha inviato domande dettagliate all’ex giudice Paccagnella. Che ha risposto precisando, prima di tutto, di «non essere mai stata parte in causa nei procedimenti penali e civili», che hanno coinvolto solo sua figlia e «l’ex marito», da cui si era separata già nel 2004. Ha chiarito che il trust fu costituito «in vista del divorzio e nel totale rispetto della normativa italiana». E ha fatto notare che «mia figlia e suo padre non hanno pendenze debitorie verso alcuno», in quanto «la compagnia assicuratrice ha già risarcito gli interessati», per cui le cause in corso riguardano da tempo «solo le altre parti». Che «la famiglia Volpe era tenuta comunque a risarcire», per cui era «indifferente chi fosse alla guida».

Sulla prova del Dna, l’ex magistrata difende i giudici civili osservando che l’auto era distrutta, i corpi delle vittime furono estratti a fatica, per cui «non vi poteva certo essere alcun automatismo nell’attribuzione di una traccia di sangue, ovunque rilevata». E aggiunge che «degli sfortunati ragazzi, solo Mattia ha riportato la frattura della clavicola sinistra, che è tipica del conducente con la cintura». Sul consiglio giudiziario, l’ex giudice smentisce qualsiasi manovra: «Non dispongo più degli atti e non ricordo i nomi dei magistrati che furono valutati, ma se qualcuno mi avesse segnalato ragioni di opportunità, di certo mi sarei astenuta».