La chiusura dell’ufficio coperto dei servizi segreti di Al-Sisi a Milano. L’attivismo diplomatico della Francia. Così è partita la corsa a liberare lo studente in prigione. Mentre la famiglia Regeni attende giustizia

Mesi fa, quando il processo per l’omicidio di Giulio Regeni era ormai a un vicolo cieco ed è cominciato il conto alla rovescia per la liberazione di Patrick Zaki, anche l’ufficio coperto dei servizi segreti egiziani a Milano ha chiuso bottega. Il monitoraggio sull’Italia settentrionale, dalla provincia di Udine per il caso Regeni all’Università di Bologna per Patrick, era compito loro. La svolta, interpretata dal regime del Cairo come il segnale di un nuovo corso, è confermata dalle notizie del 26 novembre che arrivano da Roma.

Quel giorno nelle sale del Quirinale il presidente del Consiglio, Mario Draghi, e il presidente francese, Emmanuel Macron, davanti al capo dello Stato, Sergio Mattarella, e alle delegazioni dei ministri di Roma e Parigi, firmano il “Trattato per una cooperazione bilaterale rafforzata”. È la dimostrazione più autorevole che grazie alla Francia, principale alleato europeo del presidente Abdel Fattah al-Sisi, anche i rapporti tra Italia e Egitto torneranno presto alla normalità.

Nel giro di pochi giorni, il primo pomeriggio di mercoledì 8 dicembre Patrick Zaki, 30 anni, può finalmente riabbracciare la sorella Marise, la fidanzata e gli amici venuti a prenderlo davanti al commissariato di Mansoura, la sua città. E, nelle stesse ore, il consiglio di amministrazione di Leonardo può perfino sperare nella vendita all’aviazione militare egiziana di ventiquattro aerei da addestramento M-346, che si aggiungono a due fregate già cedute da Fincantieri nel corso dell’anno. Un affare per l’industria statale italiana di circa un miliardo e settecento milioni.

Sono comunque briciole rispetto alle forniture belliche per miliardi di euro che la Francia ha consegnato all’Egitto durante la crisi dei rapporti tra Il Cairo e Roma aperta con la morte di Giulio Regeni e continuata con l’arresto di Patrick Zaki. Il ricercatore universitario friulano era stato sequestrato senza motivo, torturato e ucciso a 28 anni da agenti segreti egiziani tra il 25 gennaio e il 2 febbraio 2016. Lo studente dell’Università di Bologna era stato invece fermato all’aeroporto del Cairo il 7 febbraio 2020.

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Questa partita a scacchi sulle due sponde del Mediterraneo ha più giocatori, ma un unico arbitro: il presidente francese Macron, con la sua diplomazia. Grazie al nuovo trattato del Quirinale, il premier Draghi ha riparato i danni provocati dal primo governo di Giuseppe Conte, culminati con la visita di Luigi Di Maio, allora vicepremier, ai capi dei gilet gialli che in quelle settimane stavano devastando Parigi. E con la liberazione di Patrick Zaki, il presidente egiziano al-Sisi ha provato a dare all’Europa una prova di apparente buona volontà. Ma, in questi giorni di parziale sollievo, non tutti hanno vinto.

Non hanno ancora ottenuto giustizia Claudio Regeni, 69 anni, Paola Deffendi, 63, e la memoria del loro figlio Giulio. Le parole più ruvide nei loro confronti le ha pronunciate proprio il ministro degli Esteri, attribuendosi parte del successo per la liberazione di Patrick: «È alimentando i canali diplomatici che si arriva ai risultati, non chiudendoli», è la spiegazione data da Luigi Di Maio. Evidente l’allusione alla richiesta della famiglia Regeni, assistita dall’avvocato Alessandra Ballerini, di ritirare l’ambasciatore italiano al Cairo, dal momento che la magistratura egiziana si rifiuta di eseguire l’elezione di domicilio dei quattro ufficiali imputati per la morte di Giulio, impedendone così il processo in Italia.

L’elezione di domicilio è il semplice atto che l’autorità deve compiere davanti all’indagato affinché possano essergli comunicate le accuse che lo riguardano e le convocazioni alle udienze. Anche se la Procura di Roma ha identificato i presunti responsabili, senza questo pezzo di carta controfirmato o almeno recapitato, le torture e l’omicidio di Giulio rimarranno impuniti. Mancano infatti gli indirizzi dove notificare i capi di imputazione. Non è riuscita a ottenerli la diplomazia guidata da Di Maio. Ma nemmeno i tentativi personali di Marco Minniti, già ministro dell’Interno dal 2016 al 2018 durante il governo di Paolo Gentiloni e oggi presidente della Fondazione Med-Or, creata nella primavera 2021 dalla società Leonardo, come spiega il sito istituzionale, per «rafforzare i legami, gli scambi e i rapporti internazionali tra l’Italia e i Paesi dell’area del Mediterraneo allargato fino al Sahel, Corno d’Africa e Mar Rosso (“Med”) e del Medio ed Estremo Oriente (“Or”)».

Finora è stato quindi più facile vendere aerei e navi da guerra a un regime totalitario, senza però ottenere in cambio la dovuta assistenza giudiziaria per rendere giustizia alla morte di un ragazzo innocente. Nonostante la mancata collaborazione, i servizi segreti egiziani hanno invece libertà d’azione in Italia.

La sede coperta, attiva a Milano nei mesi più acuti della crisi per la morte di Giulio Regeni e l’arresto di Patrick Zaki, ne è la dimostrazione. Due piani di una palazzina di uffici in affitto, più lo scantinato, in una zona industriale a un quarto d’ora a piedi dalla fermata Brenta della terza linea della metropolitana, vicino al dormitorio comunale intitolato a Enzo Jannacci, a pochi isolati da piazzale Corvetto. Ufficialmente era il quartier generale di un’impresa di costruzioni, che dava lavoro e permessi di soggiorno ai connazionali in Lombardia. «Muratori? Qui non ne abbiamo mai visti», raccontano gli autisti di un vicino deposito di Poste Italiane: «Ogni mattina si notava un discreto viavai di persone. Dall’aspetto erano tutti arabi, ma non sembravano affatto muratori. I loro vestiti erano stirati, puliti. Poi un giorno, all’improvviso, hanno smontato le insegne e non si è visto più nessuno». Da allora le saracinesche sono abbassate. Le luci spente, dietro le vetrate a specchio.

L’agenzia segreta più temuta sotto il regime di al-Sisi è l’Aca: Autorità di controllo amministrativo. Al di là della sigla burocratica, si tratta di una rete di intelligence che sorveglia i tanti apparati e, in nome della lotta alla corruzione, risponde direttamente alla cerchia fidata del presidente. Sono gli agenti dell’Aca, sparsi tra i consolati e gli uffici coperti, a monitorare quanto viene pubblicato in Italia sui dossier che interessano il regime. Ora che il caso di Patrick Zaki è stato temporaneamente disinnescato, il processo ai presunti assassini di Giulio Regeni resta il più delicato.

L’omicidio del ricercatore friulano è competenza dell’Autorità di controllo amministrativo. I quattro imputati sono infatti dipendenti dello Stato egiziano: il generale Sabir Tariq, 58 anni, ufficiale di polizia presso il Dipartimento per la sicurezza nazionale; il colonnello Mohamed Ibrahim Athar Kamel, 53 anni, allora capo delle investigazioni giudiziarie al Cairo; il colonnello Helmi Uhsam, 53 anni, allora in forza alla National Security egiziana; il maggiore Abdelal Sharif Magdi Ibrahim, 37 anni, anche lui ufficiale della National Security. Sono tutti imputati per sequestro di persona e il maggiore Magdi per le torture e l’omicidio di Giulio, insieme con altri complici rimasti sconosciuti.

Lunedì 10 gennaio il fascicolo verrà nuovamente discusso davanti al giudice per l’udienza preliminare, dopo che il 14 ottobre la III Corte d’Assise di Roma ha azzerato il processo per le mancate elezioni di domicilio. Il caso Regeni insomma è ancora nelle mani del ministro Di Maio. Vedremo cosa riuscirà a ottenere, con o senza la mediazione francese.

Alla vigilia del sesto anniversario della morte del ricercatore, il governo italiano è all’angolo. Se alza la voce sull’omicidio, rischia di perdere i contratti militari con al-Sisi e Patrick Zaki potrebbe essere condannato a una pena superiore al periodo già trascorso in carcere. Se scende a patti, sacrifica la memoria di Giulio e la statura civile dei suoi genitori. Poi tocca a Patrick.

Martedì primo febbraio lo studente dell’Università di Bologna tornerà davanti al giudice egiziano. Tre settimane separano le due udienze. Ventuno giorni in cui nessuno tra Roma e Il Cairo vorrà perdere la faccia.

La speranza di una via d’uscita è nel calendario. Il 2022 è infatti un anno particolare per l’Egitto. Dal 7 al 18 novembre Sharm el-Sheikh, la località turistica sul Mar Rosso, ospiterà la conferenza sul clima Cop 27 e il regime, forse, cercherà di non presentarsi all’appuntamento mondiale con le carceri piene di studenti e oppositori.

Un’opportunità l’ha indicata qualche giorno fa Mohamed Anwar el-Sadat, leader del Partito riforma e sviluppo e nipote del presidente egiziano ucciso in un attacco terroristico il 6 ottobre 1981. Queste le sue parole: «Proviamo a ricostruire quello che si è rotto tra noi in Egitto e l’Italia a causa del caso Regeni e di quello di Patrick George Zaki».

Lui, Patrick, un cuore grande, due lauree e un master all’Università di Bologna interrotto dall’arresto, continua a credere nella giustizia. Lo dimostra la sua pagina Twitter su cui ha ripreso a pubblicare con discrezione: «Spero di sentire qualcosa di buono oggi», posta lunedì 20 dicembre sopra le foto di uno scrittore, un avvocato e un blogger arrestati nel settembre 2019 per aver criticato il governo. La sentenza del Tribunale del distretto di New Cairo, senza possibilità di appello, arriva nel pomeriggio: «Lo scrittore Alaa Abd El Fattah è stato condannato a cinque anni di prigione, mentre l’avvocato Mohamed el-Baqer e il blogger Mohamed “Oxygen” Ibrahim a quattro anni ciascuno». Il regime che ospiterà la prossima conferenza mondiale sul clima è tutto questo.