Cesare Prandelli
Cane sciolto
Non ha mai allenato la squadra per cui inopinatamente tifo, vaso di coccio rossoblù nel Rollerball di porcellana infrangibile in cui il calcio si è da tempo mutato. Cionondimeno ho sempre provato per Cesare Prandelli una stima, quasi un affetto, irredimibili. La sua vicenda umana ai tempi in cui allenava per la prima volta la Fiorentina. I suoi Mondiali 2014 difficilissimi. In generale, la sua dirittura comportamentale sia come giocatore che come tecnico, lo collocano da sempre nel piccolo Pantheon dei diversi, dei cani sciolti, appunto, che per sovrammercato non vanno in giro a rivendicare il guinzaglio strappato.
Degli estranei al sistema, vicini al cuore del sistema. Capaci, quando illuminati dalla luce di un fato benigno, e dalla complicità momentanea di qualche altra anima libera, di un rimbalzo felice, di una bomboniera dei sentimenti altrui dentro alla quale muoversi, di raccogliere quanto meritato. Non mancano, nel pallone, figure del genere. Ma fateci caso: sono tutte antiche. E tutte estreme. Oltre che tutte defunte.
Era così Gigi Meroni, quello della gallina col collare e del talento gracile e cristallino. Lo era George Best, che considerava sperpero solo i denari non gettati in donne e alcool. Volendo, persino Maradona, coi suoi eccessi leaderistici anche fuori dal campo: riascoltatelo quando giocava nel Napoli, più lucido di molti politici che l’avrebbero imitato malamente, e di tutti i calciatori fatti con la stampante 3D che gli sono succeduti. Con una differenza che non sfuggirà all’occhio: si è trattato di campionissimi. Bruciati financo nella parabola vitale dal loro stesso estro, mentre la sfortuna ne osservava compiaciuta i trionfi più o meno flebili.
Prandelli non è stato un fuoriclasse, in campo. E non ha stravinto neppure in panchina. Eppure appartiene alla genia di quelli che hanno pagato una piccola cauzione, in termini di vittorie spicciole, alla loro dirittura morale, alla loro estraneità sussurrata eppure tenace, al loro viaggiare in direzione ostinata e contraria ma senza le quattro frecce accese.
Una cauzione che incassano con gli interessi, però, nel momento in cui prendono la porta, sottolineano che forse è per sempre, lo sanno, eppure guardano dritti e aperti nel futuro sapendo che è difficile sconfiggere la propria ombra, come ha scritto Prandelli nella lettera d’addio. Ma che un uomo senza ombra è un uomo fatto di niente. Invece ce l’ha, Cesare, l’ombra. Ben piantata sull’asfalto, nitida, quasi sorridente, mentre il sole di una primavera giovanissima ne illumina da lontano i passi con cui si lascia alle spalle questo calcio così piccino. Così deludente. Senza nulla a pretendere, con ancora molto da dare, col sorriso interiore di un uomo che è rimasto verticale anche quando la vita ha cercato di stenderlo. Personalmente, spero di rivederlo su una panchina. Significherebbe non che è cambiato lui, ma che in questa pedata di plastica c’è ancora spazio per gli uomini veri. Buon vento, Cesare.
Giudizio: 3-0 a tavolino