La parola
Isolamento
Ogni settimana un lemma commentato da una grande firma
È la parola più battuta dal vento, e soffia dentro sino al mal di mare. La più avventata, da quando è cominciato tutto. Isolamento.
C’è un’isola dentro la parola, infatti. E ti confonde. Ne sa qualcosa il più grande isolato e isolano di tutti, Ulisse, che per sette anni ogni mattina sulla spiaggia di Ogigia, stordito, piange Itaca e brama Calipso.
Isolati per preservarci, isolati per non contagiare. Fascinosa e perversa ambiguità: l’isolamento separa i detenuti (e un tempo i matti) come ogni materiale a rischio, dai cavi elettrici alle zone di soglia, ma aiuta gli artisti a osare, i saggi a riflettere, i mistici a pregare. Quarantena o espansione dell’anima.
Isolamento vuol dire farsi isola. Ma ogni isola è sogno e condanna, perché è in balia del mare. Non c’è mito più ancestrale e ambivalente, zuccherato o inzaccherato nei secoli. Utopia e distopia. L’isola di Robinson Crusoe, laboratorio di ingegneria sociale, e le isole di Gulliver piene di disparità, quella perfetta di Tommaso Moro e l’isola del tesoro, l’isola di Platone e quella di Ariosto, l’Isola dei Morti e isola Eden per ricominciare. Miraggio o reclusione. Isole per confinati e esuli, isole per avventurieri. Isole per Napoleone, per Stevenson e per Gauguin, isole belle di Arturo e isole perfide del dottor Moreau. A ciascuno la sua. Atlantide. Avalon. L’isola che non c’è e quella che c’è troppo, nel senso del peso (come gravame) lamentato dalla penisola. Isolamento come distanza, penuria di scambi, arretratezza. O al contrario differenza, alterità come valore?
Vedi alla voce mare. Chi è nato in un’isola la conosce sin troppo, questa voce. Carezzevole, suadente, ipnotica. Minacciosa livida recriminante. Che dice parti, resta, rimanda, aspetta.
Ogni isola(mento) è nido e trappola insieme. A fine pandemia, quando usciremo smascherati, ci guarderemo intorno come naufraghi, cercando luci all’orizzonte. Perché l’abbiamo conosciuta, persino amata con paura. Isolitudine.