Palermo

C’è la mafia ma non lo Stato. I giudici demoliscono la trattativa

di Enrico Bellavia   23 settembre 2021

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Condannati solo Bagarella e Cinà: assolto Marcello Dell’Utri. Dunque: Cosa nostra mise le bombe per ottenere qualcosa che secondo i giudici non arrivò. Le motivazioni diranno se gli interventi pro-boss furono solo coincidenze

Come è ovvio bisognerà leggere le motivazioni. E mai come in questo caso sta lì il perché i giudici d'appello di Palermo, come era stato pronosticato, abbiano escluso la responsabilità degli imputati, per così dire istituzionali, della trattativa Stato-mafia. Lo Stato esce di scena e resta solo Cosa nostra.

 

La precedente assoluzione totale dell’ex ministro Calogero Mannino, faceva cadere un pezzo non da poco della ricostruzione dell’accusa. Veniva meno una dei contraenti del patto e la possibilità che avesse trovato sponda tra i carabinieri.

 

Ora il nuovo verdetto esclude il coinvolgimento del vertice del Ros, Antonio Subranni, Mario Mori (12 anni in primo grado) e Giuseppe De Donno (8 anni) ma anche quello di Marcello Dell’Utri, l’ex parlamentare forzista, braccio destro di Silvio Berlusconi, già condannato per mafia a 7 anni e a 12 anni nel primo grado di questo giudizio.

 

Gli unici condannati restano Leoluca Bagarella, superstite della colonna mafiosa corleonese che avrebbe gestito il negoziato. Ventisette contro i 28 anni inflittigli in primo grado in riferimento alla minaccia al governo Berlusconi che per i giudici è solo tentata. Otto anni al medico Antonino Cinà, presunto portaordini dei boss, presso gli apparati investigativi.

 

Tuttavia, senza partner, bisognerà capire in che modo i giudici hanno ritenuto che i boss fossero gli unici responsabili dei messaggi recapitati a suon di stragi. L’idea sembra essere quella di un’aspettativa di Cosa nostra non corrisposta. Di desiderata non raccolti.

Non ha giovato negli anni lo screditamento complessivo del superteste Massimo Ciancimino, finito qui a giudizio per calunnia, prescritta, nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro e che nelle intenzioni dell’accusa costituiva il puntello necessario e imprescindibile dell’intero do ut des mafioso.

Ovvero il famigerato papello che per il tramite del padre, l’ex sindaco mafioso Vito, i boss avrebbero fatto arrivare ai carabinieri con le richieste di favore nei confronti del vertice di Cosa nostra in cambio della fine delle bombe. L’ondivaga collaborazione di Ciancimino jr ha minato e fiaccato il processo complice l’enfasi mediatica che aveva circondato il personaggio, finito per essere una bandiera in un clima da stadio per una partita giocata tutta fuori dall’aula di giustizia. La prova regina dell’avvenuto accordo tra Stato e mafia è venuta meno. Resta il fatto che il dialogo con Ciancimino i carabinieri lo hanno avuto. E i giudici hanno finito con il credere che fosse una legittima quanta autonoma iniziativa per ottenere la cattura di Totò Riina, come sostenuto dagli imputati.

Il dispositivo nudo e crudo dice solo che i boss ci provarono ma non ottennero ascolto. Resta da capire se e in che modo dovremo rassegnarci a considerare l’accelerazione impressa al progetto di morte per Paolo Borsellino, subito dopo l’eccidio di Giovanni Falcone, le parole di Riina (“Si sono fatti sotto”, “Serve un altro colpetto”, “Erano loro che mi cercavano”) e la teoria di interventi  legislativi e governativi per depotenziare i pentiti, far cadere l’efficacia del carcere duro, fino alla cancellazione del 41 bis per decine e decine di imputati, siano solo delle coincidenze. Fatto sta che nel 1994 le bombe cessarono per davvero. E la leadership di Riina che le aveva volute non terminò con la sua cattura il 15 gennaio del 1993. Leoluca Bagarella, suo cognato, rimase ancora libero per un altro pezzo, esportando a Roma, Milano e Firenze la strategia del tritolo. È credibile che continuasse a chiedere senza ottenere nulla? E perché poi si arrese?