Rimosso il dibattito sullo Ius soli, affossata la legge contro l’omotransfobia, ignorata quella di iniziativa popolare sul fine vita. Nonostante piazze piene, proteste e raccolta firme. Che hanno solo evidenziato la distanza tra l’Italia e chi la governa

Non è successo niente. Un anno di mobilitazioni; piazze e banchetti, discussioni e proteste hanno soltanto avuto il pregio di illuminare la distanza tra l’Italia e chi la governa. Il Parlamento italiano saluta il 2021 senza nessuna legge approvata sul fronte dei diritti. Nessuna per la comunità Lgbt, mentre le piazze di tutta Italia si mobilitavano. Nessuna su eutanasia e cannabis mentre dai banchetti si raccoglievano milioni di firme. Nessuna per gli italiani senza cittadinanza, lo Ius Soli ridotto a un colpo di sole di fine agosto, evocato per qualche ora sulle prime pagine e subito rimosso.

«Il Parlamento non è arrivato a nulla» dice Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni. «Sul fine vita come sulla cannabis, le leggi di iniziativa popolare sono state ignorate. Sul fine vita c’era il richiamo della Corte Costituzionale a prendere delle decisioni ma hanno preferito approvare in Commissione un testo che restringe le possibilità previste dalla Corte».

Non è tranquillizzato dalle parole del relatore della legge Alfredo Bazoli (PD): «Abbiamo scelto di seguire le orme tracciate dalla Consulta perché è l’unica via che può portare all’approvazione». Anzi, l’ex radicale le raccoglie e le smonta pezzo per pezzo: ««Alla patologia irreversibile è stata aggiunta una nuova cognizione di prognosi infausta, vuol dire che Dj Fabo, Welby, per fare qualche esempio, non erano allo stato terminale». Le norme in discussione non migliorerebbero il testo ma: «escludono chi non è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, come i malati di tumore, e non fissano tempi certi. Anzi, fanno dei passi indietro su obiezione di coscienza, sofferenza psichica e cure palliative».

Ma allora cos’è questa legge discussa nell’Aula semivuota della Camera? «Uno spauracchio. Un modo per mandare un messaggio politico alla Corte Costituzionale e dire: il Parlamento sta cercando di fare qualcosa, se non abbiamo il referendum di mezzo è meglio». L’iter della legge sul fine vita racconta di una politica che va in direzione contraria e ostinata rispetto al mondo fuori e che trema di fronte a quella data cerchiata in rosso nel calendario 2022: 15 febbraio. Giorno dell’udienza della Corte costituzione chiamata a esprimersi sull’ammissibilità del referendum che conta un milione e duecentomila firme. «Noi siamo pronti, pancia a terra porteremo 25 milioni di italiani al voto». Il voto, che potrebbe tenersi a fine giugno, servirà all’abrogazione parziale dell’articolo 579 del codice penale: la reclusione da sei a quindici anni chi procura la morte di una persona con il suo consenso.

«Anche sulla cannabis questo è un parlamento totalmente distante dai cittadini». A dire che tutto è immobile è la deputata del PD, Enza Bruno Bossio, tra le fondatrici dell’Intergruppo parlamentare per la legalizzazione della cannabis: «In Commissione Giustizia si parla sostanzialmente di autoconsumo. Ho proposto degli emendamenti che andassero nella direzione del referendum, cioè della legalizzazione ma non credo che saranno approvati. Per fortuna il referendum va avanti. Mentre noi parlamentari restiamo indietro». Il suo partito non ha ancora espresso una posizione ufficiale: «La maggioranza è su questa linea. I nostri elettori sono d’accordo. Il problema è quella parte del Pd che confonde legalizzazione con liberalizzazione. E non capisce che legalizzare la cannabis equivale a un colpo importante alle mafie». Basta scorrere i dati dell’ultima relazione annuale del governo al Parlamento (dati Istat 2020) per capirlo: le sostanze psicoattive illegali sono stimate intorno ai 16,2 miliardi di euro, di cui il 39% (quindi circa 6,3 miliardi) attribuibile al consumo dei derivati della cannabis. Stime, perché gran parte del mercato resta nascosta alle forze dell'ordine. Ma la questione resta sulla graticola delle aule parlamentari e delle segreterie di partito, fino a bruciare, mentre fuori il referendum sulla legalizzazione supera le 600 mila firme.

La questione Ius Soli invece somiglia alla trama di un giallo. Perché la legge per gli italiani senza cittadinanza non riparte? Per mano di chi? Pochi ricordano che si trova ancora in Commissione Affari costituzionali dove le numerose audizioni si sono concluse nel marzo del 2020. Sulle cronache di quest’anno è riapparsa in maniera dirompente durante un agosto afoso, inserendosi tra l’incandescente dibattito sul ddl Zan e le medaglie conquistate dall’Italia multietnica alle Olimpiadi. Era stato il segretario Enrico Letta a tirarla a lucido: «Dopo le Olimpiadi la consapevolezza credo sia divenuta più generale. Per questo rivolgo un appello a tutte le forze politiche ad aprire una discussione in Parlamento e a trovare una soluzione sullo ius soli». Addirittura, il deputato PD Enrico Borghi aveva azzardato: «Sarà legge entro l’anno». Alla Camera la prima proposta porta la firma della ex presidente Laura Boldrini nasce da una richiesta portata avanti da una trentina di sindacati, associazioni e Ong: «L’Italia sono anche io». C’è poi quella di Renata Polverini, ex deputata di Forza Italia che ha lasciato il gruppo proprio per le differenze di vedute sul tema e si basa sullo Ius Culturae. Infine il disegno di legge a firma del dem Matteo Orfini, un mix tra ius culturae e ius soli «temperato». «La mia legge - dice Orfini – sostanzialmente riprende quella che approvammo già alla Camera la scorsa legislatura. Frutto di una mediazione molto avanzata». La legge saltò definitivamente al Senato poco prima di Natale 2017. Un epilogo prevedibile ma che ancora scotta per Orfini, all’epoca reggente del Pd: «Chiesi sia privatamente che pubblicamente a Gentiloni di mettere la fiducia, eravamo a fine legislatura. Lui disse che non serviva e che l’avremmo approvata». Adesso si potrebbe ripartire. O forse no. La discussione intorno a questa legge riporta a una serie di enigmi e un’assenza, quella del presidente della Commissione Affari Costituzionali, il cinquestelle Giuseppe Brescia: «Si era fatto avanti come relatore. Aveva detto: lavorerò su un testo che possa diventare una sintesi di quelli presentati. Sono passati due anni. Siamo in attesa che Brescia lo tiri fuori dal cassetto». Il pentastellato Brescia però contattato da L’Espresso ha così risposto: «Quando qualcuno chiederà la calendarizzazione ce ne occuperemo senz'altro. Se il dibattito diventa concreto noi siamo pronti su ius scholae». Una posizione che lascia «stupito» Orfini: «Difficile chiedere la calendarizzazione di un testo che non esiste» e annuncia: «Il nostro capogruppo in Commissione Affari Costituzionali Stefano, Ceccanti chiederà la calendarizzazione al primo ufficio di presidenza. Sperando che Brescia abbia il testo».

Insistere e non mollare, giacché l’ordine di scuderia di Enrico Letta è andare avanti sui diritti e pazienza per gli umori degli alleati di governo; su una legge contro l’omotransfobia si affida nuovamente al testo Zan, morto in Senato nel mese di novembre. «Bisogna provarci fino all’ultimo», è sicuro il deputato Pd Alessandro Zan. «Si può ripartire da aprile dal mio testo, mettiamo che passi al Senato con piccole modifiche ma senza togliere l’identità di genere e le scuole. La Camera può approvarlo così com’è». Tempi? «Prima dell’estate al Senato e in autunno alla Camera». Anche Alessandra Maiorino, senatrice del M5s ha annunciato di voler «presentare ad aprile un nuovo testo che oltre ai reati di odio fondato sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, preveda percorsi educativi nelle scuole». Qualcosa si muove. È una questione di tempistica e prospettive: «Se ci sarà ancora questa legislatura», ironizza un senatore di Fdi.

Ma non è forse tutto da buttare questo 2021. La tampon tax, ad esempio. Quest’anno l’aliquota sarà ridotta dal 22% al 10. «Una vittoria per i diritti delle donne», dice la dem Lia Quartapelle firmataria insieme ad altre deputate dell'emendamento che riduce l’iva sugli assorbenti: «La portiamo avanti dal 2018. Nel 2019 è stata data l’esenzione solo a quelli compostabili. Nel 2020 non siamo riusciti ad ottenere nulla. Quest’anno possiamo parlare di una vittoria». Ma non la pensa così Beatrice Brignone, segretaria di Possibile, fu lei a porre la questione nell’ormai lontano 2016: «La direzione è giusta. Ma proprio sono beni prima necessità bisogna chiedere l’aliquota giusta cioè il 5%. Non codici sconto».

Alla debolezza della politica si aggiunge la debolezza del Parlamento. Lo evidenzia Openpolis con un dato: il governo Draghi è riuscito a far approvare 38 disegni di legge in circa 7 mesi. Nello stesso periodo le leggi di iniziativa parlamentare approvate sono state 6. Vuol dire che senza la spinta del Presidente del Consiglio il processo legislativo non va a buon fine. Recuperare la centralità del Parlamento per approvare diritti di libertà e colmare la differenza antropologica con il paese. Cancellare la distanza che separa i cittadini senza diritti, dalle risa sguaiate di chi esulta solo quando una legge muore. È una lunga strada e porta inevitabilmente alla prossima legislatura.