Le candele sono accese, le piazze poco illuminate, si recitano i nomi delle vittime di transfobia a voce alta, quelli che le persone trans hanno dato a sé stesse e che non compaiono quasi mai nelle cronache dei giornali. È il 20 novembre del Transgender day of remembrance, in sigla «Tdor», un suono che accosta luci e ombre, che affianca la lucentezza dell’«oro» alla «T» di trans troppo spesso circondata da pregiudizi e stereotipi.
Presente a Roma anche Gabriela Abigail Redondo del Colectivo Unidad Color Rosa dell’Honduras. In Italia grazie al progetto, Centroamerica Diversa, co-finanziato dall’Ue e promosso da Arcigay e Terra Nuova. Un viaggio lungo per l'attivista trans che lavora per i diritti delle persone transgender nel paese più violento del mondo. Lì i tassi di omicidio sono tra i più alti in America centrale e sono dieci volte superiori a quelli negli Stati Uniti. Le prime vittime le persone trans. Come racconta Gabriela a L’Espresso: sulla loro pelle si consuma da anni un rito tragico. «Bisogna ammazzare una persona trans per entrare a far parte delle Maras», cioè le bande criminali che da decenni insanguinano il paese.
Redondo ha condotto azioni di incidenza politica a livello nazionale, in particolar modo riguardo l’uccisione di Vicky Hernandez, sua compagna di lotta, per la quale la Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) ha condannato lo stato honduregno.
«Il 28 giugno di 2009 quando c'è stato il colpo di stato, sono aumentati gli assassinii nella nostra comunità trans. Viky è stata tra le prime vittime. Era una volontaria e attivista del collettivo. Era uscita durante il coprifuoco, non lo sapeva. Doveva lavorare in strada, l’unico lavoro che possiamo portare avanti per sopravvivere. Fermata dai militari, le hanno sparato alla testa».
La Cidh ha condannato lo Stato dell’Honduras il 26 marzo 2021. Una sentenza senza precedenti nella quale il paese centroamericano è stato ritenuto responsabile della morte di Hernández. La Corte aveva sottolineato nella sentenza la partecipazione di agenti statali in quell’omicidio, ma soprattutto aveva denunciato il grave contesto di violenza contro le persone Lgbt e in particolare contro le donne trans in situazione di prostituzione. Ma questo non ha fermato la transfobia che dilaga nel paese. Le ultime vittime: Lorenza Hernandez, una giovane donna trans di 23 anni, violentata, lapidata a morte e il suo corpo bruciato da membri di una gang. E ancora Lady Oscar Martinez Salgado di 45 anni, accoltellata a morte numerose volte nella sua casa e il suo corpo bruciato.
In Honduras molte trans subiscono il rogo. Il fuoco altera le fattezze, “purifica” la scena. Chi si vuole liberare di una donna trans dopo averne abusato la brucia, perché non rimanga più nulla. È la barbarie. Gabriela lo racconta: «Come popolazione trans è difficile anche esercitare la prostituzione. Le bande obbligano le donne trans a pagare il pizzo, a vendere droga e spesso anche a consumarla. I miei occhi hanno visto compagne uccise giorno dopo giorno: una ragazza è stata avvolta da una busta di nylon e investita più volte da una macchina, a un’altra hanno amputato i genitali. Sono riti di iniziazione. I nostri corpi sono una porta che permette ai criminali di entrare nelle bande». Non esseri umani ma oggetti: «Lavorare è impossibile, prostituirsi è difficile. Alle persone trans non viene neanche permesso di giocare alla lotteria. Spesso vengono aggredite anche quando vanno a ritirare il premio della lotteria domenicale. Anche quella rendita episodica viene a loro preclusa».
Gli attivisti, come sempre, sono più esposti. Come Melissa Nuñez, uccisa il 18 ottobre a Morocelí, dipartimento El Paraiso, centro urbano a circa 60 km dalla capitale dell’Honduras, Tegucigalpa. L’attivista è stata attaccata da alcune persone incappucciate che le hanno teso un’imboscata mentre stava uscendo di casa. Gli assalitori le hanno sparato diversi colpi da distanza ravvicinata, due dei quali alla testa.
Ha rischiato tante volte anche Gabriela: «Come direttrice del Colectivo Unidad Color Rosa sono sempre esposta mediaticamente, soprattutto nel chiedere giuste indagini e giustizia per la morte delle mie compagne trans. Questa visibilità costa. Subisco continue minacce dalle bande armate e anche dalla stessa polizia. Vengo perseguitata. Ma non posso lasciare il Paese. L’ho fatto durante l’ultima condanna della Corte nei confronti dell’Honduras. Dovete sapere che l’Honduras ha all’attivo dieci sentenze che le impongono di rispettare la legge sul riconoscimento anagrafico delle persone trans. Sono scappata e sono tornata. Non posso lasciare sola la mia famiglia e le mie compagne. L’unica paura che ho sono le ripercussioni sulla loro pelle, invece che sulla mia».
Il lavoro dell’associazione è quello di aiutare le vittime e far sì che lo Stato applichi le leggi: «Xiomara Castro è la prima presidente donna dell’Honduras ed è anche la prima presidente di sinistra da oltre dieci anni: l’ultimo presidente eletto di sinistra era stato suo marito Manuel Zelaya, deposto nel 2009 con un colpo di stato militare. Abbiamo grandi aspettative». Nell’attesa che qualcosa cambi, Gabriela lancia un appello alla comunità mondiale perché resti vigile l’attenzione sul secondo paese più povero delle Americhe.
«L’Honduras è l’inferno per le persone trans. Lo Stato ha chiesto perdono durante un vento a maggio. Ma niente è cambiato. Molte sono costrette a immigrare, chi non può perché non ha i soldi o non è istruita, rimane e subisce. Chiediamo solo il diritto di essere libere. Di vivere dignitosamente. Di non dover affrontare il pericolo di morte ogni volta che ci svegliamo la mattina. E soprattutto il diritto al nostro nome».