Fortezza Europa

Dopo il naufragio, la burocrazia: a Catania tra i volontari che danno un nome a chi muore nel Mediterraneo

di Linda Caglioni   19 settembre 2022

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Ad Ady hanno tolto la figlia perché non poteva dimostrare di essere vedovo. Khaled invece ha ritrovato la tomba di suo padre. Così la Croce Rossa scava tra inchieste e faldoni per riuscire a identificare chi è solo un numero

Chi non conosce Catania ha bisogno di qualche tempo prima di riuscire a orientarsi all’interno del suo camposanto. Grande da sembrare una città, di una città ricalca anche la vastità confusa, l’opposizione tra quartieri e stili. Dall’ingresso principale, una scalinata conduce ai mausolei dove riposano i resti delle famiglie nobili, mentre l’oro delle cappelle in stile neoclassico contrasta con la nudità della terra destinata alla sepoltura dei migranti, una distesa in cui si susseguono file tutte uguali di paletti neri. Sul loro acciaio portano incise combinazioni di numeri e lettere che servono a identificare coloro che sono stati sepolti anonimamente. Ma negli anni quei codici hanno finito per sostituire anche i nomi e cognomi di chi avrebbe potuto essere o era già stato identificato, ed è stato tuttavia registrato ufficialmente come salma senza identità, a causa di una burocrazia lenta, complessa, per molti aspetti controintuitiva.

«Quando siamo sbarcati a Catania ho riconosciuto davanti alla polizia il cadavere di mia moglie. Ho confermato la sua identità, ho mostrato la foto del suo passaporto. Ho spiegato che la bambina di sette mesi che era con me era nostra figlia. Mi è stato detto che non c’era garanzia che io fossi il padre, e ci hanno separati, siamo rimasti lontani per qualche mese. Nel frattempo, senza che io venissi avvisato mia moglie è stata seppellita. E anche se so esattamente dove si trova, sulla lapide al posto del nome c’è un codice». Gli eventi a cui Ady si riferisce risalgono alla tarda primavera del 2017. Aveva circa 30 anni quando, con la moglie poco più giovane di lui e la figlia di pochi mesi, lasciò la Nigeria, terra d’origine, e partì dalle coste libiche per fare ciò che a migliaia avevano già tentato di fare prima di lui: attraversare il Mediterraneo. Giunse in Italia solo grazie ai soccorsi, intervenuti per recuperare i superstiti dell’imbarcazione su cui erano rimasti bloccati da giorni, troppi. «Sono arrivati a salvarci proprio poco dopo che mia moglie era morta. In quei giorni non mangiavo, non avevo più forze. Ancora oggi mi sento in colpa: era mio compito proteggerla ma non ci sono riuscito».

Dal giorno di quel lutto ci sono voluti quattro anni prima che Ady riuscisse a ottenere un certificato di morte che gli permettesse, a cascata, di stringere in mano tutti i documenti che un adulto immigrato deve avere in tasca per vivere legalmente in Italia. «Poiché Ady si presentava agli uffici sempre come padre di una bambina, era come se mancasse perennemente un pezzo della sua storia personale, perché la madre era considerata viva dall’ambasciata nigeriana. Se affermava che era morta e che l’affidamento della figlia spettava a lui, gli chiedevano di presentare l’atto di morte. Che lui, però, non sapeva come ottenere», spiega Daniele Beretta, l’avvocato che ha aiutato Ady nel complicato iter per l’ottenimento di un atto civile che testimoniasse che era vedovo. «Ovunque andasse, qualunque richiesta facesse, la prima domanda che si sentiva rivolgere era “e la madre della bambina, dov’è?”».

Il paradosso burocratico in cui Ady si è ritrovato non è un’eccezione. Ogni anno, centinaia di persone tentano di mettersi in contatto con le associazioni che operano nei luoghi di sbarco per scoprire cosa ne è stato dei loro cari. A ogni corpo mai trovato corrisponde una famiglia costretta a rimanere sospesa. Per avere un’idea realistica della vastità del problema, basti sapere che secondo il rapporto Counting the Death elaborato dalla Croce Rossa Internazionale con la delegazione del dipartimento forense di Parigi, si hanno i resti utili all’identificazione soltanto del 13.1 per cento dei 19.803 migranti risultati dispersi tra il 2014 e il 2019 in Italia, Grecia e Spagna.

Questo è il motivo per cui le madri, i padri, i figli che riescono ad avere conferma del decesso del proprio congiunto si ritengono fortunati. Anche se, nella maggior parte dei casi, devono poi affrontare un altro calvario: l’iter per avere un certificato che ne attesti la scomparsa, un pezzo di carta senza il quale rischiano di restare bloccati in un tempo indefinito in cui la persona cara non è più viva, ma la legge non la riconosce ancora in quanto morta. «Non avere un atto di morte significa per i parenti non essere considerati vedovi, non poter chiedere l’affido dei figli del defunto, non poter ereditare. In sostanza, comporta l’impossibilità di andare avanti», racconta Silvia Dizzia, responsabile del servizio Restoring Family Links di Catania, il programma della Croce Rossa che lavora al ripristino dei contatti familiari. «Quando la nostra città ha iniziato a essere luogo di sbarco, molte persone si sono messe in contatto con noi per sapere dei loro cari. Ma non sempre era possibile rispondere. Così abbiamo sentito il bisogno di trovare un nuovo e più efficiente modo di restituire un nome alle salme».

Tutto è partito dalla mappatura dell’area cimiteriale, e dal successivo studio dei faldoni depositati in Procura, la cui sequenza identificativa di numeri e lettere ricalca quella riportata sulle lapidi anonime. Il secondo passaggio ha riguardato l’incrocio di tutte le notizie a disposizione sulle vittime, un confronto tra gli elementi forniti dalle famiglie e le informazioni contenute nei documenti di indagine: dalle caratteristiche fisiche agli effetti personali, dalle notizie sul viaggio alle testimonianze di chi era presente al momento del decesso. Lettere, fotografie, oggetti e segni particolari come cicatrici o tatuaggi si sono così trasformati in strumenti per ordire la trama in cui riscrivere un unico nome, diverso dagli altri 260, tante sono le persone migranti sepolte al cimitero catanese. «Siamo partiti dall’idea che i corpi abbiano qualcosa da raccontare. Quando abbiamo iniziato a sfogliare i fascicoli grazie a un protocollo siglato con la Procura, con il Comune, e tutte le autorità coinvolte nelle operazioni di sbarco, ci siamo accorti che a volte le salme erano già state riconosciute dai parenti o dagli amici», continua Silvia. «Solo che i nomi erano rimasti fermi lì, agli atti del procedimento penale a carico di ignoti aperto per indagare su quelle morti».

Un responsabile di questa falla comunicativa tra uffici, tuttavia, non esiste. In Italia non c’è alcuna legge che preveda che le informazioni contenute nei faldoni delle indagini, tra cui a volte anche gli stessi nomi di chi muore, siano trasmesse all’Ufficio morti del Comune e possano essere usate per evitare l’anonimato. Si tratta di un mancato passaggio tra piano penale e piano civile a causa del quale, però, decine di nomi scivolano nell’oscurità, rischiando di restare intrappolati non sui fondali del mare, ma nei cassetti e negli archivi delle varie procure.

Nell’opacità di una normativa che si è rivelata quanto mai inadeguata nel far fronte alle responsabilità etiche e ai bisogni emersi con la crisi migratoria, la squadra del Restoring Family Links della Croce Rossa di Catania ha trovato il modo di portare un po’ di luce lungo il sentiero dei diritti. «Studiando nel dettaglio la legge, abbiamo scoperto che ogni persona che abbia interesse a che l’identità sia recuperata può depositare un’istanza in Procura e far sì che quest’ultima, a sua volta, si attivi per chiedere al Tribunale civile di rettificare gli atti di morte anonimi e sostituirli con certificati con nome e cognome», prosegue Silvia. In sostanza, al procuratore viene chiesto di “riaprire il caso”, e di sfruttare ai fini della identificazione le informazioni raccolte durante le indagini e rimaste inutilizzate.

È grazie a questo meccanismo che Ady è riuscito a dimostrare alla burocrazia che sua moglie era morta. Ed è sempre grazie allo stesso iter che lo scorso 18 giugno, durante la cerimonia di inaugurazione ufficiale di questo nuovo servizio, tre migranti hanno ricevuto una vera lapide. Uno di loro è Hussein Mohammed Chreiki, siriano di 68 anni che ha perso la vita in un naufragio avvenuto nel 2016. «Quando da Catania ci hanno telefonato per dirci che avevano scoperto dove era stato sepolto mio padre, ho pensato per prima cosa a mia madre. Non poteva accettare che i suoi resti fossero finiti persi nel Mediterraneo o, peggio, che il suo corpo fosse stato bruciato», ha raccontato Khaled, il figlio di 34 anni. Benché non sia riuscito a partecipare alla cerimonia della posa della nuova lapide, è attraverso una chiamata WhatsApp dalla Germania che ha condiviso i dettagli della storia di suo padre. «Il giorno in cui è morto sono stato chiamato nella notte da un conoscente. Quando ho sentito quelle parole ho avvertito la mia vita farsi nera. Mio padre era un signore di 67 anni. Sapeva nuotare, appena si è accorto che l’imbarcazione si stava spezzando sotto di lui mi hanno detto che ha aiutato quante più persone ha potuto, finché non ce l’ha più fatta. Una volta recuperato, il suo corpo è stato messo sottoterra con la sigla N.N. Ma ora ha di nuovo un nome».

Adesso che questo sistema è stato ufficialmente inaugurato, l’obiettivo è farlo conoscere, diffonderlo ad altri luoghi di sbarco affinché si dia vita a un sistema di dati incrociato sempre più ampio. Ma la strada è lunga. Le cifre dicono che in Italia dal 2014 al 2019, il tasso di identificazione dei corpi recuperati è del 27%, poco più di un quarto. Secondo Filippo Furri, ricercatore associato per il progetto Morti in contesto di migrazione (Mecmi), il problema è connesso tra le altre cose a un’idiosincrasia fra le tempistiche necessarie alla burocrazia per l’identificazione e quelle previste per la sepoltura. «I corpi non possono “aspettare”, rispondono a una dimensione più sbrigativa rispetto alle carte. I tanti indizi presenti nei documenti della Procura e della Prefettura potrebbero essere usati per l’identificazione, ma per il loro utilizzo occorre la mobilitazione delle famiglie che, nel frattempo, devono ottenere visti per muoversi, spedire documenti. Senza contare che, in alcuni casi, scoprono della morte quando ormai il corpo è stato sepolto», spiega l’antropologo, che anni fa, insieme alla collega Carolina Kobelinsky, aveva steso una guida per le famiglie sulle procedure di identificazione. «Prima della sepoltura viene estratto il Dna, per garantire di poter effettuare l’identificazione in caso di richiesta successiva. Ma è un tipo di esame che porta con sé non poche complicazioni pratiche, oltre al fatto che è molto costoso», conclude Furri.

La normativa italiana prevede che debbano trascorrere dieci anni prima che sia decretata la morte presunta di una persona di cui non si sa più nulla. «Ma, anche prendendo in considerazione questa ipotesi, non è detto che si tratti di un passaggio che coincide con l’ordinamento dei paesi d’origine», fa presente Cecilia Siccardi, ricercatrice dell’Università Statale di Milano esperta di problematiche giuridiche legate al fenomeno migratorio. «Purtroppo nel nostro Paese non c’è nessuna norma che preveda che l’identificazione sia un diritto. Ma è ovvio che se non si identifica un corpo, oltre a violare la dignità dei morti, che è un principio costituzionale, si lasciano i familiari in una situazione di sofferenza estrema perché continuano a cercare. Tutte le persone, però, come ha stabilito la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, hanno il “right to truth”, il diritto a sapere».