La denuncia

I suicidi tra studenti che non arrivano alla laurea sono il segno di un male profondo della nostra società

di Chiara Sgreccia   12 ottobre 2022

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L’episodio di pochi giorni fa a Bologna è solo l’ultimo di una serie sempre più lunga. Che racconta il disagio di una generazione schiacciata tra pressione sociale e mito irraggiungibile dell’eccellenza

Si suicida il giorno in cui si sarebbe dovuto laureare. É successo venerdì scorso a Bologna ma era già successo altre volte. Troppe. Il 7 ottobre è stato ritrovato il corpo senza vita di uno studente iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell’università di Bologna nelle acque del fiume Reno, nella periferia della città. Aveva 23 anni e sembra avesse detto a parenti e amici che si stava per laureare. Ma non era vero: gli mancavano gli esami necessari a ottenere il titolo di studio.

 

Una vicenda molto simile a quanto accaduto un anno prima, sempre a Bologna. Il 9 ottobre 2021 un altro studente fuorisede era stato trovato morto sotto il Ponte Stalingrado. Aveva invitato i familiari in città per la sua laurea che, invece, non era in programma. Lo scorso luglio un iscritto della facoltà di Medicina in lingua inglese, dell’Università di Pavia, prima di togliersi la vita ha inviato un’email al Rettore in cui sottolineava la paura di perdere la borsa di studio e quindi la possibilità di vivere negli alloggi dell’ateneo.

 

Aveva trent’anni ed era bloccato al terzo anno. «Sono lo studente che si è tolto la vita in collegio - ha scritto nella lettera -, non sono riuscito a cambiare nulla. L’Edisu (l’ente per il diritto allo studio universitario ndr) ha cercato di aiutarmi e gliene sono molto grato ma non è solo una questione economica ma anche di (in)giustizia». L’anno prima, a luglio 2021, un venticinquenne dell'Università Federico II di Napoli era stato trovato morto all’interno della facoltà di Lettere. Anche in questo caso, secondo le ricostruzioni dei Carabinieri, si è trattato di un suicidio. Lo studente aveva descritto ai genitori un percorso di studi che non aveva mai compiuto.

 

«Quello che sto per dire non è per togliere i meriti al più giovane laureato d’Italia. Ma proprio negli ultimi giorni eravamo stati bombardati degli articoli che lo riguardavano, ne hanno parlato la maggior parte dei quotidiani online, e questo tipo di informazione fa sentire chi è fuori corso ancora più in difetto. Viviamo una quotidiana pressione da parte delle famiglie, dei professori e anche dei nostri coetanei. Ci viene chiesto di essere performanti, eccellenti, in regola con gli esami. Non tutti hanno il coraggio di chiedere aiuto». Così racconta Giulia Grasso, neolaureata all’università di Bari che lo scorso giugno ha deciso di dedicare la sua tesi in Lettere antiche proprio a chi non riesce a portare a termine il percorso universitario. In particolare, agli studenti che non sono riusciti a sopportare il peso del “fallimento” e hanno deciso di togliersi la vita. Grasso racconta che anche per lei gli anni dell’Università sono stati complessi e si è laureata due anni fuori corso: «I giornali parlano degli studenti universitari o quando accade una tragedia o quando devono esaltare le capacità di uno di loro: leggerli faceva crescere il mio malessere. Tutti gli altri sono fantasmi».

 

«A chi giova scrivere decine di articoli sullo studente record? Allo studente record e alla sua famiglia. Alla sua università privata, spesso, perché è una forma di marketing. A chi nuoce? A molti altri evidentemente, troppi per essere sepolti nel silenzio –accusa Aestetica Sovietica, editoriale online indipendente che ha collaborato con l’Espresso alla raccolta di testimonianze in questo articolo – Spinge forte sul petto di chi non ha la prontezza o la lucidità per problematizzare il racconto e scovarne le trappole. Di chi, così, riceve l’impressione distorta di essere l’unico e solo. Basterebbe questo per piantarla. Eppure, i media tradizionali non riescono a trovare un modo per parlare di università che non sia la celebrazione dei picchi individuali. O la pietà fuori tempo massimo per chi ha preferito la morte. Questo contribuisce a plasmare un senso comune cieco agli ostacoli di classe, scolpisce famiglie in cui il gap generazionale fra genitori e figli non consente di trovare una definizione condivisa di fallibilità».

 

Come spiega Pasquale Colloca, Professore associato del dipartimento di Scienze dell’educazione dell’Università di Bologna: «Il suicidio può essere interpretato come un fenomeno che scaturisce dalla tensione sociale, che in determinati periodi storici è più forte. Quella che si crea tra una meta che viene culturalmente definita come tale, la laurea ad esempio, e le effettive possibilità di raggiungerla può essere un caso. Dietro c’è un’interpretazione utilitaristica dello studio, come strumento per acquisire nozioni e voti, che genera ansia». Come sottolinea il sociologo Colloca e ribadisce anche la professoressa Antonella Curci, ordinaria di Psicologia generale all’Università di Bari e referente del Rettore per il counseling psicologico: «Non c’è mai solo una causa a motivare gesti così estremi come il suicidio. Sarebbe limitante incolpare l’Università ma certamente la pressione sociale che gli studenti vivono tutti i giorni potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso. Viviamo una società che ci vuole sempre bravi e performanti e questo non è facile da reggere». Per Curci l’isolamento dovuto alla pandemia ha peggiorato la situazione perché ha diminuito la possibilità di costruire relazioni genuine con gli altri.

 

«L’Università come competizione è una vergogna e i media la alimentano di continuo», scrive un operatore della segreteria studenti dell’Università di Bologna. «Un giorno allo sportello si è presentata una studentessa chiedendo perché il suo nome non risultasse tra i laureandi. Con lei c’erano i fratelli e una trentina di persone tra amici e parenti. Ho controllato sul database e ho scoperto che non aveva mai sostenuto un esame. Dopo la prima rata aveva anche smesso di pagare le tasse. Eppure, per cinque anni i miei colleghi e io l’avevamo vista a lezione. Le ho chiesto di parlare da soli ma lei si è rifiutata così ho dovuto dire la verità davanti a tutti. Ero distrutto e per giorni ho avuto il terrore che potesse suicidarsi. Per fortuna so che adesso sta bene e lavora. Esiste un servizio di supporto psicologico ma non sempre riesce ad intercettare tutti gli studenti che ne avrebbero necessità».

 

Anche perché, come racconta Antonio Corlianò, studente dell’università di Bologna, che fa parte dell’organizzazione politica Cambiare rotta: «L’università è stata dimenticata nel periodo del Covid. Adesso che siamo tornati in presenza emergono i problemi che derivano da un nuovo confronto con la realtà. Anche in un ateneo d’eccellenza come quello di Bologna». Ed è proprio la volontà di «costruire l’eccellenza» il problema, secondo Corlianò e gli altri studenti che sabato scorso si sono uniti davanti al rettorato per manifestare la necessità di pensare un sistema universitario diverso da quello vigente. «I temi sono tanti: l’essere fuoricorso, le tasse alte da pagare, il merito come criterio di assegnazione delle borse di studio che vincola il diritto allo studio, lo stress a cui siamo costretti a causa delle difficoltà nel trovare casa, visto che siamo obbligati a spostarci fuori città e pagare l’affitto per fare i pendolari. Costruire l’eccellenza ha un prezzo». Ed è quello che gli studenti sono costretti a pagare tutti i giorni.