Editoriale
Ecco perché Elena Cecchettin è la persona dell'anno per L'Espresso
La sorella di Giulia è la figura che caratterizza il 2023 per il nostro settimanale. Perché ha trasformato il dolore privato in assunzione di responsabilità collettiva, costringendoci a dare un nome al male di cui soffriamo: il patriarcato. Ma dopo la diagnosi serve la cura
Prima bisognerebbe dare un nome alle cose, riconoscere il male per provare a guarirne. Nelle settimane trascorse dalla notizia del ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin sono accaduti fatti che cospirano contro questa possibilità e che il «cambiamento radicale», la cura invocata dal Capo dello Stato nel giorno dei funerali arrivi in tempi brevi.
L’Espresso ha scelto Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, come persona del 2023. Perché le sue parole sul patriarcato e la cultura dello stupro di fronte a centodieci vittime di femminicidio sono una lucida diagnosi. Perché è esattamente ciò di cui parla a fare sì che ogni donna uccisa, stuprata, molestata venga considerata una vittima casuale. Assassinata, violentata, ingiuriata per effetto di una tragica coincidenza di circostanze fortuite che generano il mostro di turno. E non invece grano di un rosario di crimini che hanno radice, essenza, tratti e fisionomia comuni. Dentro e fuori le case, al lavoro e per strada. In tutti i luoghi in cui il genere è vissuto come una sorta di discrimine razziale, integrato nella cultura dominante che autorizza il mortificante divario che una pur sacrosanta campagna sul linguaggio scalfisce ma non demolisce.
Con pacifica determinazione, Elena Cecchettin ce lo ha detto. E nel momento in cui ha impresso al proprio dolore lo stigma di una responsabilità collettiva, nel teatrino della rappresentanza è diventata immediatamente divisiva. E non solo per una questione di cliché non rispettati. La sozzura venuta fuori dal putrido retrobottega della politica e la danza dei saltimbanchi da talk show non aveva come fine ultimo quello di dettare un canone estetico, se non etico, al lutto. Puntava invece a ristabilire l’ordinaria regola della prevaricazione eletta a legge.
La stessa che si invoca a tutela dell’imputato e che autorizza, legittima, ogni abuso dialettico nel tentativo di spostare sempre più in là la linea di demarcazione del consenso. Quasi che sul significato di un no si possa traccheggiare impunemente e deduttivamente. Ciò che è andato in scena a Tempio Pausania, al processo che vede alla sbarra Grillo junior, riporta tragicamente indietro le lancette della storia, con il marcatempo a insegnarci che quanto di osceno si consumò nell’aula del processo agli stupratori assassini del Circeo si ripete tutte le volte, in ogni stagione, in cui si pretende che la vittima dimostri che non è corresponsabile. Così, la farisaica giustificazione data alla rimozione dalle teche della memoria televisiva delle arringhe difensive del 1976, «perché figlie del tempo», come raccontato da Beatrice Dondi su questo giornale, è una mistificazione. Copre con la censura quel misfatto e la sua reiterazione.
Le diecimila persone ai funerali di Giulia Cecchettin, le cinquecentomila al corteo del 25 novembre a Roma raccontano però che c’è un Paese reale che dalle caverne è fuori già da un pezzo e non ha voglia di aspettare che chi ha delega per decidere smetta clava e pelliccia. È impaziente, sì, proprio come vede le donne il presidente della Corte costituzionale, Augusto Barbera. Ha chiesto loro di guardare ai passi compiuti per tollerare meglio i tempi lunghi dei successivi. Eppure, non c’è da essere pazienti nel pretendere che si applichi la Costituzione. «Senza distinzioni». Anche per essere più credibili quando poi la si difende. E forse provare a guarire.