Tempi lunghi per gli attestati di libera circolazione, costi e burocrazia frenano l’esportazione delle opere. E disincentivano gli scambi interni. Il nostro Paese precipita in fondo alla classifica del settore, mentre giganti come Sotheby’s e Christie’s lasciano. Con buona pace della valorizzazione del patrimonio

Qualche giorno fa l’installazione che campeggiava davanti alla sede romana della casa d’aste Sotheby’s erano sacchi della spazzatura. Il portone era chiuso. La grande società inglese fondata da Samuel Baker nel 1744 non batte quasi più aste in Italia; i primi mercati ai quali ha detto addio sono stati quelli dell’arte antica e dell’800. Anche l’altra società londinese Christie’s, insieme con diverse altre case internazionali stanno abbandonando l’Italia perché schiacciate dai meccanismi giuridici e dai tempi lunghi previsti per l’esportazione di opere d’arte - quindi beni culturali - fuori dai confini.

Nel Paese con il più vasto patrimonio artistico mondiale, l’eccessiva burocratizzazione rende quasi impossibile la libera circolazione dei beni privati. Si va dal quadro dipinto al monile, alle suppellettili antiche, fino a statue, colonne, ogni ritrovamento considerato di rilevanza culturale. Da prima, l’Italia è ormai in posizioni di coda nel mercato dell’arte. A danno di mercanti e collezionisti, soprattutto quelli più seri e certificati.

 

Lo spiega bene Sonia Farsetti, legale rappresentante della casa d’aste omonima, presidente dell’Anca - Associazione nazionale case d’asta - e del gruppo Apollo, che riunisce le principali case d’asta. «In Italia anziché applicare le norme sulla tutela del patrimonio artistico in modo virtuoso, si tende a un eccessivo protezionismo delle opere d’arte», fine a sé stesso.

 

Le opere alle quali viene negata una libera circolazione internazionale non godono di una pubblica fruizione in Italia e spesso restano chiuse in abitazioni o in depositi. «Questo va anche a decremento della conoscenza. E mortifica la proprietà privata», dice Farsetti. Seppure il settore regga abbastanza bene grazie a una rete di case d’asta italiane, che però vivono gli stessi disagi di quelle straniere, le attese per ottenere un attestato di libera circolazione possono sfiorare i 7 mesi. «Una situazione che non ci rende concorrenziali con i competitori internazionali e che paralizza gran parte degli scambi».

 

Rimane così molto difficile spiegare e far accettare a un cliente straniero l’iter burocratico che «ci rallenta così tanto e che dilata i tempi per ricevere un’opera». Il rapporto con gli acquirenti stranieri (in particolare in Francia, Germania e Usa) è sempre più complicato; in molti rinunciano ad acquistare su territorio italiano. Oltre alle difficoltà per l’esportazione, all’interno, le case d’asta risultano onerate dai costi molto elevati della Siae inerenti la riproduzione nei cataloghi cartacei e digitali e all’ammontare del diritto di seguito.

 

Il comparto del mercato dell’arte ha un impatto economico di quasi 4 miliardi di euro e impiega oltre 36 mila addetti. Vincolare, notificare opere d’arte scatena una serie di effetti collaterali a lungo termine. Non solo le case d’asta scappano a gambe levate, ma a essere danneggiati sono i pochi custodi di antichi mestieri legati a doppio filo con quelli dell’antiquario e del mercante. Impagliatori, corniciai, restauratori, doratori.

 

«Viene a mancare una catena di supporto che in un contesto come quello artistico è funzionale alla resa finale dell’opera che dovrà essere esportata», racconta Claudio Franchi, argentiere. «Un mercato non libero come quello italiano ha impoverito il nostro ruolo. E il meccanismo secondo me non è scardinabile». Barbara Santoro fa la restauratrice di tessuti: «Il problema è a monte - sostiene - con l’ufficio esportazioni». Dipendendo da scadenze dettate da terzi, «spesso i lavori non rispettano i tempi di cui necessiterebbero. Le difficoltà per la libera circolazione delle opere incidono necessariamente sulla nostra attività». Vittorio Pandolfino fa il doratore a Roma: «I vecchi collezionisti lasciano tutto agli eredi che non acquistano, e raramente lo fanno qui per via del caos sulle esportazioni; si lavora ormai con una nicchia di clienti ristretti. Le regole, per come sono oggi, sono inutili. Ho visto decine di opere nei magazzini dei musei, buttate lì. Che senso ha?».

 

Per spiegare la disfunzione del sistema italiano, bisogna considerare il principio fondativo del mercato europeo, ovvero quello della libera circolazione delle merci: alla base ci sono norme e tempi certi. Quello dell’Europa, spiega Alessandra Di Castro, nota antiquaria romana e vicepresidente di AaI, Associazione antiquari d’Italia, è un mondo «dove far circolare beni è regolato da leggi semplici e chiare e molto rispettate».

 

Ben diverso il discorso per l’Italia dove la burocrazia è fortissima e limita la circolazione.«Per legge, le opere più vecchie di 70 anni possono essere esportate con un attestato di libera circolazione; quelle di età compresa tra i 50 e i 70 anni hanno bisogno di una autocertificazione che viene richiesta agli stessi uffici preposti. Lo stesso per le opere con un valore sotto i 13.500 euro, che possono uscire attraverso un’autocertificazione». Ferma restando la possibilità da parte dello Stato di vincolarli, limitandone l’esportazione e la commerciabilità.

 

Un esempio per tutti: «Se una giovane ereditasse dalla nonna un bracciale notificato, perché ritenuto di eccezionale rilevanza storico-artistica, non potrebbe uscire di casa indossandolo senza avere prima il “lasciapassare” della sovrintendenza alla quale dovrebbe rivolgersi ogni volta che ha intenzione di spostare il monile», spiega Di Castro. E per avere il “permesso” c’è da sottoporsi ai tempi burocratici dell’ente pubblico, che non sono mai scanditi in maniera puntuale, anche per un’annosa carenza di risorse. Questa procedura è necessaria per ogni opera d’arte notificata che si voglia spostare per portarla a una mostra, a un evento, a una semplice esposizione d’arte, o anche solo durante un trasloco o per un evento personale come una cena tra amici.

 

E nel frattempo cosa succede con le opere vincolate? «La tutela per essere giusta dovrebbe porsi come obiettivo la valorizzazione, invece questi oggetti spesso rimangono nei depositi o nell’appartamento del privato. E siccome il vincolo si può esercitare anche in assenza di richiesta di un permesso di esportazione, il privato non opera in clima di fiducia - rinunciando a prestare un bene a esposizioni e mostre per paura di un possibile vincolo - e così l’opera italiana e l’artista italiano, non circolando, perdono valore. Un sistema Paese oltre a proteggere dovrebbe promuovere e valorizzare, penso al caso della Francia, che oggi attira opere d’arte da tutto il resto d’Europa», dice Di Castro. In un mercato globale in cui la competizione è scandita da ritmi e regole certe, il privato è incentivato a valorizzare il proprio bene esponendolo in pubblico per la fruizione della collettività. «Qui in Italia, purtroppo no».