Non è una notizia. Per quanto agiti i quotidiani di destra, sconvolga i parlamentari di Fratelli d’Italia, innervosisca i gruppi anti-Lgbt. La decisione del tribunale di Trapani che ha riconosciuto a una persona transgender il diritto di cambiare nome e identità di genere all'anagrafe senza alcun intervento chirurgico effettuato o programmato e senza alcuna terapia ormonale, non rompe nessun equilibrio giuridico. Già 12 anni fa il tribunale di Roma riconosceva il diritto a rettificare il genere di una persona trans senza intervento chirurgico. Poi la sentenza n. 221 del 2015 della Corte Costituzionale ha riconosciuto il diritto all'identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all'identità personale, rientrante nell'ambito dei diritti fondamentali della persona garantiti dall'art. 2 della Costituzione e dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani.
Insomma, il diritto all’identità di genere oggi è giurisprudenza: a spiegarlo a L’Espresso l’avvocato Lele Russo, del foro di competenza di Catania e membro di Rete Lenford, l’Associazione dell’Avvocatura per i Diritti LGBTI+, una rete di legali e giuristi che garantisce tutela contro ogni forma di discriminazione per orientamento sessuale e identità di genere.
Avvocato, può spiegarci le novità di questa sentenza se ce ne sono?
«Quanto riconosciuto a Emanuela con la pronuncia resa dal Tribunale di Trapani posso, senza timore di smentita, affermare che non costituisce nessuna grande novità. Trattando del riconoscimento all’identità di genere di una persona trans, la quale sceglie di non sottoporsi all’intervento chirurgico, non c’è da stupirsi se anche nel caso di Emanuela, il Tribunale di Trapani abbia accolto la sua domanda di rettifica. È, infatti, un principio consolidato e pienamente riconosciuto da diversi anni, quello per il quale l’intervento chirurgico non sia obbligatorio, ai fini della domanda di rettificazione anagrafica. Questo principio, trova accoglimento a partire dalle due più note sentenze della Corte Costituzionale, del 2015 e del 2017 , la quali hanno sancito il principio - oggi “guida” delle Corti di Merito Italiane - per cui “la prevalenza della tutela della salute dell’individuo sulla corrispondenza fra sesso anatomico e sesso anagrafico, porta a ritenere il trattamento chirurgico non quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione, ma come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico”. Il Tribunale di Trapani, in effetti, non ha fatto altro che seguire il superiore principio, lasciando ad Emanuela la libertà di scegliere il miglior modo di raggiungere il suo benessere psicosessuale. Ma torno a ribadire, sono più di 8 anni che ciò è possibile e riconosciuto in Italia, senza che per questo la sentenza di Trapani rappresenti un traguardo mai prima d’ora raggiunto».
Critiche arrivano dal mondo Pro Vita. Per gli antiscelta questa sentenza va contro la legge e serve a legittimare l'autoidentificazione e il cosiddetto ''Self-ID''
«Anche qui, nessuno stupore. Il movimento Pro Vita, è noto per strumentalizzare con scopi, in questa sede, transfobici, valori e principi di uguaglianza e libertà all’autodeterminazione dell’individuo. Nel caso della pronuncia di Trapani, è il caso di osservare come, invero, Emanuela, non si sia “alzata una mattina” stabilendo di riconoscersi nell’identità di genere femminile, ma si sia dovuta sottoporre a incontri di natura medico-psicologica con un professionista, nominato dal Tribunale stesso (un CTU, Consulente Tecnico d’Ufficio), al fine di confermare la sua incongruenza di genere. Sul punto, tengo a chiarire che, nel percorso di transizione di genere, per lo meno in Italia, tanto nel caso di Emanuela a Trapani, tanto in qualsiasi altro procedimento con la medesima domanda di rettifica del genere, condizione imprescindibile a fondare la domanda, è quella di avere una diagnosi psicologica di Incongruenza di genere/ Variante di genere secondo il DSM V, Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali). È per questo che la critica di pro- vita non coglie nel segno. Nessuna persona transgender, gioca per puro gusto con la sua identità, ma è spesso il frutto di gravosi percorsi di autocoscienza, di percorsi personali e sociali autodeterminazione, che tutto sono fuorché una “passeggiata”. Pro vita, come per molti altri temi che riguardano la comunità lgbtiq+ e non solo, è portatrice di ideali, tutt’altro che meramente conservatori, ma direi, piuttosto, che hanno come fine quello di incentivare l’odio e la cultura bigotta del nostro Paese».
A scorrere le carte della sentenza, leggiamo che Emanuela non ha fatto nessuna terapia ormonale, potrebbe essere questa la novità?
«Come già spiegato, il percorso medicalizzante, e quindi, anche l’assunzione della terapia farmacologica ormonale, non trova prescrizione in nessun passaggio della legge 164/82, sulla rettificazione del sesso. Generalmente, è un aspetto della transizione medicalizzante che le persone transgender, richiedono e desiderano intraprendere al più presto, al fine di modificare il proprio aspetto verso la direzione dell’identità che percepiscono propria. La pronuncia di Trapani, come molti altri Tribunali Italiani, ha giudicato non sulla base dell’estetica di Emanuela, se avesse connotati più o meno femminili, ma secondo il parametro della propria percezione all’identità di genere femminile, da anni anche socialmente riconosciuta e, infine, soprattutto, sulla scorta delle risultanze della diagnosi del professionista della salute mentale. È con questo assunto finale che mi permetto di affermare che, nella pronuncia di Trapani, non v’è alcuna novità di grande rilievo, sia pur ammettendo che essa costituisce una buona – ulteriore- pronuncia che scardina l’idea che essere di genere maschile o femminile sia confermato dalla misura del seno o dalla barba.
C’è un retaggio che bisogna cambiare nella società, non solo nei Tribunali. In molti Tribunali Italiani, con procedimenti di questo tipo, si ottengono pronunce anche in 8/9 mesi. Nel caso di Emanuela, arriva dopo ben due anni».
Insomma tanto rumore per una non notizia
«Il tentativo di innovatività non è riscontrabile, nemmeno nella scelta del procedimento tecnico. La scelta di intraprendere incardinare il procedimento di rettifica del sesso, non in applicazione della legge n. 164/82, ma con un ricorso di modifica dell’atto di nascita, non trova accoglimento; difatti, la pronuncia di Trapani, sia per la forma (sentenza) sia per le ragioni spiegate, come, infine, per la CTU nomita dal Giudice in corso di causa, risponde al procedimento di rettifica del sesso secondo la legge del 1982. Ciò posto, dunque, anche la scelta del rito, non pare aver giovato alla rapidità del procedimento».