Centotredici femminicidi dopo quello di Giulia Cecchettin, ciò che altrove fa parte della formazione, in Italia resta affidato a iniziative spontanee ed episodiche. Nulla di istituzionale

A un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin per mano dell’ex fidanzato Filippo Turetta e dall’uccisione di altre 113 donne dopo di lei, il dibattito sull’insegnamento dell’educazione affettiva nelle scuole italiane è solo ripreso. L’11 novembre, due sindacati studenteschi, l’Unione degli universitari e la Rete degli studenti medi, hanno chiesto di ricordare Giulia Cecchettin nelle aule con un minuto di rumore rivolgendo un appello a introdurre «l’educazione sessuale, affettiva e al consenso in ogni scuola». Perché, spiegano: «La didattica che affrontiamo quotidianamente non ci garantisce degli spazi di discussione, cura e formazione per imparare a gestire al meglio i rapporti interpersonali e per affrontare in maniera serena il nostro rapporto con la sessualità». 

 

Assieme a Bulgaria, Lituania, Polonia, Romania e Ungheria, l’Italia è tra i pochi Paesi in Europa dove l’educazione sessuale non è obbligatoria. Non esiste attualmente una legge che permetta di inserire la materia nei programmi scolastici nazionali, ma le scuole, assieme alle associazioni del territorio, portano tra i banchi da alcuni anni operatrici dei centri antiviolenza, psicologi ed educatori per fare formazione sull’affettività a insegnanti, studenti e studentesse. La diffusione di queste iniziative dipende tuttavia dall’interesse dei singoli istituti e dalla loro disponibilità a proporre attività di questo tipo. I circa 400 centri antiviolenza attivi in Italia sono in prima linea nel fornire attività educative e la richiesta di intervento da parte delle scuole è in crescita, al punto che in alcuni casi c’è difficoltà a rispondere a tutte. Lo racconta Celeste Costantino, vicepresidente della fondazione “Una nessuna centomila”, che da un anno e mezzo sostiene i centri antiviolenza nelle attività di contrasto alla violenza di genere nelle scuole. «Durante gli incontri si ragiona molto sul tema della gelosia, del controllo, su che cosa significa amore e che cosa non lo è. Non è tanto l’aspetto sessuale il focus che viene affrontato, quanto la gestione sentimentale delle relazioni, se è giusto controllare il telefono, vestirsi in un certo modo e uscire liberamente senza il proprio fidanzato», spiega Costantino. Ma la mancanza di una normativa che riconosca l’educazione affettiva come materia scolastica, definendone le caratteristiche e le modalità di insegnamento, comporta diversi problemi, per esempio nello stabilire chi dovrebbe occuparsi di insegnarla. «Oggi ci avvaliamo delle operatrici dei centri antiviolenza e di chi educa alle differenze di genere – osserva Costantino – Nel resto d’Europa invece se ne occupano da tempo gli insegnanti e la formazione è interna alle scuole». 

 

Il ministero della Salute sta provando a colmare questa lacuna finanziando un progetto di educazione alla sessualità in senso allargato. Avviato dall’Università di Pisa nel 2022 insieme alla Lega italiana per la lotta contro l’Aids, all’organizzazione per i diritti Lgbtq Arcigay, Caritas e Croce Rossa, tra gli altri, consiste in alcuni cicli di incontri nelle scuole medie e superiori. I laboratori coinvolgono anche i docenti e le famiglie e trattano argomenti come la gestione delle emozioni e delle relazioni, l’uguaglianza di genere e la prevenzione delle infezioni sessualmente trasmissibili. Anche in questo caso però la diffusione delle iniziative è frammentata. Le attività introdotte hanno riguardato finora Lombardia, Toscana, Lazio e Puglia con la volontà di raggiungere entro il prossimo anno anche Campania e Friuli. Se in Italia l’argomento è in stallo e le attività formative vengono realizzate in modo non uniforme, a livello internazionale le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità sono chiare. L’educazione affettiva e sessuale o “educazione sessuale estensiva” dovrebbe essere insegnata fin da piccoli, orientata in base alle varie fasi dello sviluppo, e dovrebbe prediligere un approccio multidisciplinare, tenendo conto di conoscenze legate a salute pubblica, pedagogia, antropologia, sessuologia, pediatria e psicologia. Anche la Convenzione di Istanbul, il principale trattato internazionale sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne, sollecita gli Stati ad adottare un approccio olistico nelle scuole e da qualche anno ha riconosciuto l’importanza di integrare l’educazione digitale nel contrasto alla violenza online. A fine 2023, il ministro dell’Educazione Giuseppe Valditara ha proposto di creare gruppi di discussione sulla violenza di genere nelle scuole superiori, senza prevedere ore obbligatorie dedicate. Di questo piano non c’è ancora traccia, ma di recente Gino Cecchettin, padre di Giulia, tramite la fondazione intitolata alla figlia uccisa ha rilanciato la proposta di istituire un’ora di educazione affettiva nelle scuole «per spiegare la differenza che c’è tra amore e possesso, tra amore e odio».

 

Mentre si discute sull’implementazione della materia, in Italia viene commesso un femminicidio ogni tre giorni. La percezione degli stereotipi e della violenza è tangibile. Secondo le ultime rilevazioni dell’Istat, il 19,7 per cento degli uomini e il 14,6 per cento delle intervistate pensano che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire. La tolleranza verso forme di aggressione fisica all’interno delle coppie diminuisce, ma il 2,3 per cento continua a ritenere accettabile che «un ragazzo schiaffeggi la sua fidanzata perché ha flirtato con un altro uomo». Quasi il doppio considera tollerabile che «in una coppia ci scappi uno schiaffo ogni tanto». Tra i giovani, poi, il 10,2 per cento dichiara di accettare il controllo dell’uomo sulla comunicazione della partner.