Non giriamoci intorno per paura di violare il galateo: il francese Emmanuel Macron e l’italiana Giorgia Meloni si detestano amabilmente. Come si detestano è abbastanza palese, ogni giorno le cronache offrono una nuova sfumatura. Perché si detestano è più complicato da spiegare e, soprattutto, conduce a una domanda che va oltre Macron e Meloni: quali conseguenze ricadono sul rapporto Italia-Francia se la presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica si destano amabilmente e con tale impressionante costanza? Per la risposta non serve dragare né le simpatie né i narcisismi dell’uno e dell’altra, ma un terno, secco, di ambiti cardine: geopolitica, finanza, industria. Le nostre fonti suggeriscono di partire da un libro, si intitola “Le declassement français”, è una indagine sul campo, è uscita tre anni fa durante il declassamento politico di Macron e il declassamento geopolitico di Parigi. «Oggi la Francia deve ritrovare il suo posto nel mondo». Questa strenua ricerca, che è pure una prova di resistenza, va spesso a cozzare con gli interessi italiani.
Geopolitica. La Francia sta ancora elaborando il lutto nel continente africano: rinnegata, respinta, emarginata ovunque. Si è ritirata dal bordo del deserto, dal suo ricco Sahel, per fare spazio ai paramilitari russi che, per esempio, nella Repubblica Centrafricana sono la garanzia della “sicurezza” interna. In Niger, smacco doloroso per Parigi, l’unica bandiera europea è quella del contingente italiano: formalmente è una presenza a “supporto” della Repubblica, in sostanza è un avamposto di Bruxelles in una zona cruciale per i traffici illeciti, il commercio, il terrorismo. La Francia conserva la sua influenza in Cirenaica sul generale Klalifa Belqasim Haftar, ma la famiglia Haftar, da sempre legata agli Stati Uniti, è in manovra di riavvicinamento. Non più di tardi di tre settimane fa, i figli di Haftar sono stati negli Usa per un convegno. La Casa Bianca non ha intenzione di riaffondare le mani in Libia dopo i disastri bellici del passato né altrove in Africa, ma si muove con decisione quando ci sono degli equilibri da ricalibrare. È successo con la recente visita di Marco Rubio: il segretario di Stato si è precipitato a Kinshasa per un accordo di pace fra la Repubblica democratica del Congo e i vicini del Ruanda per non interferire nelle esportazioni di minerali. Allo stesso modo, e con lo stesso spirito, l’America potrebbe patrocinare una nuova fase in Libia delegando il turco Recep Tayyip Erdoğan, il suo mediatore preferito, che presidia la Tripolitania. Secondo gli analisti più attenti, oggi in Libia comandano in tre e in quest’ordine di peso: Turchia, Egitto, Russia. La Francia è fuori dal podio. Come l’Italia. Però mentre la Francia aspira a un ruolo da protagonista, l’Italia si premura di tutelare le sue esigenze e poi si accoda un po’ a Washington, un po’ ad Ankara, di rado a Bruxelles.
Finanza. C’è un aneddoto che illustra alla perfezione il comportamento dei manager francesi nelle multinazionali italiane. Con una premessa: la Francia è dotata di un profondo «sistema Paese», cioè di una capacità di interconnessione tra la politica, le istituzioni, le aziende, la burocrazia, i servizi segreti, lo Stato. Più brutalmente: un manager/dirigente di formazione francese, senza generalizzare, previste le eccezioni, è sempre allineato al suo «sistema Paese». No, non c’entra il sovranismo, lo sciovinismo, il patriottismo. È una questione culturale. Una manifestazione dello Stato. Dunque, l’aneddoto. Nel periodo inverno-primavera 2023, il governo di Meloni era impegnato nel salvataggio di Eurovita assicurazioni per recuperare le polizze di 350.000 italiani per un valore totale di 15 miliardi di euro. La regia del salvataggio era ovviamente al ministero dell’Economia di Giancarlo Giorgetti e la strategia era semplice: coinvolgere tutti per non arrecare danni a nessuno. In seconda fila c’erano oltre venti banche di ogni taglia, in prima, era d’obbligo, le principali società delle assicurazioni: Unipol, Allianz, Intesa Vita, Poste Vita, Generali. Quest’ultima era la più reticente. Il francese Philippe Donnet, amministratore delegato di Generali, in pubblico era indifferente al disegno del governo italiano: «Noi facciamo un mestiere diverso» (14 marzo ’23). In privato molto più che indifferente: era sprezzante. Nonostante la sua posizione, per così dire, non entusiastica, Donnet partecipò alle riunioni al ministero e, ormai arrivati all’intesa, propose di invitare al salvataggio due società francesi, il gruppo Axa e Groupama. Fu soltanto una perdita di tempo. Alla fine Generali ha accettato di far parte del salvataggio di Eurovita (30 giugno ’23), ma adesso è più comprensibile la diffidenza del governo Meloni nei confronti del piano di Donnet che vuole fondere le attività per la gestione del risparmio di Generali (600 miliardi di euro) con quelle della francese Natixis (1.300 miliardi di euro). Il governo teme che il controllo dei “soldi degli italiani” passi sotto i francesi, Donnet smentisce e rassicura confidando nel mercato. Ai suoi critici, di vari colori politici peraltro, questa operazione ricorda la cessione ai francesi di Amundi del fondo comune di investimento Pioneer da parte di UniCredit, in epoca del francese Jean Pierre Mustier (3 luglio ’17). Allora UniCredit era in affanno e cercava di fare cassa con le vendite, poi con Andrea Orcel (27 gennaio ’21), e il contestuale aumento dei tassi, ha cominciato a correre. Quanto a Mustier, salutata Unicredit, un paio di anni fa è approdato all’azienda francese Atos per attuare il progetto di ristrutturazione statale che si è appena concluso.
Industria. Altro aneddoto, è una scorpacciata. Ancora prima che il governo italiano comunicasse i «remedies» (i rimedi) alla Commissione Europea per ottenere il nullaosta all’ingresso della compagnia Ita Airways nel gruppo tedesco Lufthansa, Air France (giugno ’24) mandò una lettera al Tesoro per proporsi come acquirente degli slot aerei in eccesso. Avrà inciso il passaporto francese del capo e del vice di quell’ufficio a Bruxelles? La Francia sa custodire il cordone ombelicale con i manager/dirigenti francesi e sa imporre le sue volontà. Guai a fare a metà con la Francia. Ricorda la scenetta di Gigi Proietti avvocato: qui li freghiamo, qui ti fregano. Proietti usava una parola più adatta. Euronext è il principale operatore del mercato borsistico europeo, cinque anni fa ha comprato Piazza Affari: la sede legale è in Olanda, ma chi comanda è francese e il quartiere generale è alla Défense, nonostante l’Italia, attraverso Cassa depositi e prestiti (7,8%) e Intesa San Paolo (1,52%), abbia le stesse quote dei francesi. Una prospettiva simile i francesi l’avevano immaginata per il progetto Bromo sui satelliti: dentro Airbus e Thales e le italiane Telespazio e Leonardo. Subodorato il trucco, Roberto Cingolani di Leonardo li ha fermati. Per il momento.
Il caso di scuola è StMicroelectronics, produttore di semiconduttori e componenti elettronici, guidato da una holding italo francese divisa a metà fra il ministero dell’Economia e la Banque publique d’investissement. Il ruolo di StM è cruciale, non stiamo qui a cianciare, e i cinesi fanno una concorrenza spietata. A novembre ’23 il governo italiano si rivolse al socio francese per segnalare tre questioni rilevanti: le previsioni sui ricavi sballate, il piano industriale schiacciato sulle automobili, la distribuzione delle commesse che penalizzava i siti italiani. La soluzione era scontata: avviare un cambio al vertice per svecchiare la prima linea guidata da Jean Marc Chery, in azienda da quarant’anni e amministratore in scadenza col secondo mandato. I francesi hanno indugiato, ma i risultati economici erano già pessimi.
Alla vigilia dell’assemblea (maggio ’24) italiani e francesi sono giunti a un compromesso: confermiamo Chery e avviamo un processo di rinnovamento entro un semestre. Due mesi dopo, superate le elezioni legislative in Francia, il socio di Parigi ha blindato Chery: altro che semestre, tre anni interi.
A novembre ’24, Stm ha rivisto al ribasso le stime sui ricavi futuri: 20 miliardi non più subito, ma entro il 2030. È stato il preludio a un crollo nei bilanci: -23 per cento il fatturato ’24, -63 l’utile ’24, -89 l’utile di inizio trimestre ’25. A guarnire la crisi, sono arrivate due cause legali (class action) di alcuni azionisti. E però la Francia, complice anche le dimissioni di Maurizio Tamagnini, ha fortificato il Consiglio di Sorveglianza che, da organo di cerniera, è diventato organo di censura e ha impedito (boicottato) la nomina in Stm di Marcello Sala indicato dal Tesoro (direttore generale uscente). A Parigi hanno unità di misura transalpine: la metà italiana vale meno della metà francese. Poi ci si chiede perché Meloni e Macron si detestano. Amabilmente.