Condizionato dal Russiagate costretto a mediare con gli alleati 5 Stelle, ora il leghista ha un dubbio. E non sa più che fare

Matteo Salvini è finito in un cul de sac

Matteo Salvini
Se non fosse per i sondaggi mirabolanti, che gli pronosticano trionfi crescenti a dispetto pure dei rubli russi, Matteo Salvini dovrebbe coraggiosamente prendere atto d’essersi infilato in un cul de sac. Innanzitutto sul piano politico, determinante nella sua corsa alla conquista totale del potere; ma anche su quello economico che sta tanto a cuore ai suoi elettori del nord produttivo.

La politica. Intervendo nel surreale dibattito sul Russiagate altezzosamente disertato dal ministro dell’Interno sotto accusa, in un’aula abbandonata dai senatori del M5S in piena confusione mentale, l’avvocato del popolo Giuseppe Conte ha chiarito a Salvini - Costituzione e prassi alla mano, e probabilmente dopo provvidenziali chiacchierate con il Capo dello Stato - che in caso di rottura dell’alleanza lui, Conte, chiederebbe alle Camere un esplicito voto di sfiducia. Si chiama “parlamentarizzazione della crisi”, che fuori dal gergo istituzionale significa che, se vuole far dimettere il premier, Salvini deve votargli contro; dal che consegue ancora che il governo che verrà (verrebbe) sarebbe un altro, non questo bocciato, è perfino ovvio. Governo che magari avrebbe il solo scopo, come ipotizzato al Quirinale, di portare il Paese alle urne. Sempre che Mattarella reputasse opportuno sciogliere le Camere.

Insomma, la partita ha preso un altro andamento. Tanto che il Capitano è ora costretto a saltare da una minaccia a una mediazione, dal rompo tutto al chiarimento, a cercare altri modi e altre scuse per arrivare al momento della verità. Intanto i suoi colonnelli premono per la rottura, consci del logoramento generale e del disastro dell’economia. Tema sul quale il “governo del cambiamento” ha fallito da subito, dalla nascita. E ora se ne ha drammatica conferma.

Con le vele gonfiate dal vento antieuropeo, Salvini e Di Maio avrebbero potuto spingere e trattare per cambiare davvero le regole del gioco, ma non lo hanno fatto. Nel senso che l’ansia di violare tetti, vincoli e trattati ha prodotto non la politica economica alternativa promessa, ma uno stanco elenco di mancette elettorali, alcune delle quali solo annunciate (meno tasse) o drasticamente ridimensionate dalla realtà delle cose (quota 100, reddito di cittadinanza). E che comunque, come scritto nella finanziaria del loro stesso governo, non hanno cambiato e non cambieranno l’ineluttabile destino italiano della crescita sero.

Ma ora c’è un elemento in più. Dopo aver già tagliato spese e investimenti nella finanziaria 2019 (tanto per dire, l’Anas ha visto sparire 1,8 miliardi: risultato, decine di cantieri chiusi) per riportare il deficit del balcone a più miti percentuali, i gialloverdi sono stati ora costretti a prendere impegni solenni con Bruxelles per evitare la procedura di infrazione: correzioni ai conti 2019 e rigoroso rispetto dei numeri concordati per il 2020. Insomma, il contrappasso salviniano vuole che il Def 2020 sia già stato scritto. A Bruxelles. E certo non aiuterà l’elezione a presidente della Commissione europea della rigida Ursula von del Leyen, facilitata dall’improvvido no di Salvini al più amichevole Timmermans.

Traduzione: addio alla flat tax, come peraltro si sgola a ripetere il ministro Tria, possibile solo in deficit o a costo di tagli di spesa pesantissimi, del resto già necessari per evitare gli aumenti dell’Iva delle cosidette “clausole di salvaguardia”, multe per aver violato i patti. Insomma, condizionato in politica, fallimentare in economia, Salvini è in un cul de sac. O no?

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