L’inflazione ha colpito gli accordi firmati negli anni scorsi. Bisogna intervenire per aiutare la ripresa

L’intervento del presidente Sergio Mattarella il Primo maggio scorso ha riportato l’attenzione dei media sulla questione dei salari bassi in Italia. Vale la pena fare il punto su tale problema, in termini di cause e rimedi.

 

Chiariamo prima di tutto una cosa. Non è vero che le retribuzioni dei nostri lavoratori dipendenti siano le più basse d’Europa, come talvolta si dice: ovviamente abbiamo ancora retribuzioni più alte di quelle di tanti Paesi dell’Europa dell’Est, anche correggendo per il diverso costo della vita. Due cose sono però vere. Primo, siamo agli ultimi posti nelle classifiche dell’aumento delle retribuzioni dalla fine degli anni ‘90. Secondo, le nostre retribuzioni sono molto più basse di quelle dei Paesi dell’Europa Occidentale con cui eravamo abituati a confrontarci.

 

Nel chiarire le cause di questa situazione occorre distinguere due periodi. Il primo va dal 1999 al 2019. Questo ventennio è stato il peggiore della storia economica dell’Italia unitaria: è il primo ventennio dal 1861 in cui il nostro reddito pro-capite non cresce, o cresce a passo di lumaca. Ed è questo il periodo in cui si apre il differenziale tra retribuzioni italiane e quelle tedesche o francesi. Tuttavia, in questo periodo siamo ultimi non solo nella classifica della crescita delle retribuzioni, ma anche in quella della crescita dei profitti (vedi la nota “Le retribuzioni e i profitti in Italia e nell’Eurozona” di Salvatore Liaci e Francesco Scinetti, pubblicata sul sito dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani l’1 luglio 2022). 

 

È l’intera economia italiana che cresce poco. C’è anche uno spostamento nella distribuzione del reddito dal lavoro al capitale, per effetto della pressione sui salari causata dalla globalizzazione, ma la causa principale del divario che si crea con Francia e Germania è la staticità della nostra produttività. La soluzione a questa componente del problema è la riforma dell’economia italiana che la renda capace di attrarre investimenti nel XXI secolo. Non rifaccio il solito elenco, ma resto del parere che la riduzione della burocrazia debba essere messa al primo posto nell’agenda di qualunque governo.

 

Il secondo periodo rilevante per spiegare i bassi salari è invece più recente. L’inflazione del 2021-22, data l’inerzia dei salari fissati da contratti triennali, ha comportato un taglio dei salari reali in quel periodo di 11-12 punti percentuali, con uno spostamento della distribuzione del reddito verso i profitti. A ciò si aggiunga che i posti di lavoro che sono stati creati negli ultimi anni sono stati concentrati in settori a bassa produttività (costruzioni e commercio, in particolare): abbiamo creato sì tanti posti di lavoro, ma di bassa qualità. Nel 2023-24 i salari sono cresciuti più dei prezzi, come risultato di rinnovi contrattuali che hanno tenuto conto dell’aumento del costo della vita: il recupero è in corso, ma avviene a una velocità di 1,5-2 punti percentuali l’anno. Di questo passo ci vorranno anni per recuperare il terreno perso nel 2021-22 e il rimbalzo dell’inflazione negli ultimi mesi non aiuterà. 

 

Alla luce di questo sviluppo credo che sarebbe appropriato prevedere nei contratti in corso di rinegoziazione aumenti salariali in eccesso ai previsti aumenti di produttività, per correggere quanto avvenuto nel 2021-22. Questo aiuterebbe una ripresa dei consumi, cresciuti nel 2023-24 a un tasso annuo di solo 0,2 per cento.

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