Mario Draghi è già il presidente della Repubblica. A correggersi si fa sempre in tempo, però i governi alleati, solidali, forestieri e pure antagonisti ne sono sicuri. E si muovono per ridurre ogni margine di incertezza: colloqui, messaggi, pressioni. Non hanno bisogno di esperimenti, corbellerie, bizzarrie berlusconiane. Li spaventa ciò che è imponderabile. Li rassicura ciò che è prevedibile. E Draghi lo è. Al Quirinale, territorio vigilato e protetto per un settennato. Non si valutano altri nomi. Non si spingono altri nomi. Anzi uno, soltanto uno, è la chiamata d’emergenza: Sergio Mattarella. Il Quirinale è un fatto politico oltre la politica italiana. L’Espresso ha tentato di interpretare le strategie dei governi stranieri consultando fonti diplomatiche, governative, vaticane. L’esito pare scontato, il percorso no. Ci sono distinzioni, sottigliezze e anche tranelli.
Al solito gli americani sono pragmatici: l’amico Draghi va tutelato, poi studiamo in che modo. In Italia ci si tutela al Quirinale, non nelle stanze di Palazzo Chigi, luoghi di frane che ciclicamente fagocitano i premier. Meglio sette anni di un Draghi forte al Quirinale che un altro anno di un Draghi infiacchito a Palazzo Chigi. Assodato. Il trasloco non è facile. Se non fosse immediato, sarebbe comunque un foruncolo, una bruciatura, uno sgorbio sul corpo di Mario. Se non fosse immediato, ci si dovrebbe stringere attorno a Mattarella e convincerlo (Matteo Salvini e Giorgia Meloni inclusi) a restare per una scadenza chissà quanto lunga. Complicato, non pratico. Non pragmatico. Però la diplomazia americana è scompigliata. Le faide interne ai democratici di Joe Biden hanno ritardato l’indicazione dell’ambasciatore a Roma e la sede di Via Veneto, da più di un anno, è gestita dall’incaricato d’affari Thomas Smitham, uomo cordiale, californiano, figura di apparato, che arrivò in Italia sotto la presidenza di Donald Trump.
Gran parte dei funzionari americani sarà sostituita e sorvegliare l’Italia mentre si è in partenza è abbastanza fastidioso. Questo si riflette anche nelle interlocuzioni fra Mariangela Zappia, apprezzata ambasciatrice italiana a Washington, e il dipartimento di Stato che è ancora in fase di riorganizzazione.
Come succede da ottant’anni, a gradazioni diverse, gli americani sono i più interessati e i più influenti, ma stavolta sono stranamente inefficaci: nessun capo di partito, né di centrosinistra né di centrodestra, frequenta con particolare assiduità i palazzi americani, a differenza del ministro leghista Giancarlo Giorgetti e del ministro piddino Lorenzo Guerini. È opinione diffusa che gli interventi decisivi di Washington e dei parenti «mercati finanziari» ci saranno negli ultimi giorni di preparazione o nei primi giorni di votazione, appena si placano le velleità di Berlusconi e si ridesta Gianni Letta, il più lucido fra i collaboratori fraterni di Silvio e perciò il più scettico da sempre sulle sue ambizioni quirinalizie.
Non ha senso intercettare una posizione delle istituzioni europee. Ciascuno asseconda le proprie esigenze. I francesi sono molto agitati, ovviamente per le elezioni di aprile. Emmanuel Macron affronta la riconferma del mandato all’Eliseo da presidente semestrale del Consiglio europeo e con il variegato governo del socialdemocratico Olaf Scholz non ancora assestatosi in Germania. Vuole consolidare la sua posizione dominante in Europa, ma contestualmente deve persuadere i francesi. Quindi è fondamentale che Draghi rimanga al governo. Macron ha una comprensibile diffidenza nei confronti dei partiti italiani. Qualche anno fa, tre non trenta, i Cinque Stelle facevano campagna elettorale contro la Francia, appoggiavano le proteste violente dei Gilet Gialli, Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Esteri, disse che Macron soffriva della «sindrome del pene piccolo» (a tal proposito l’ambasciatore Christian Masset fu impegnato in una faticosa, quanto superflua, esegesi dei testi Di Stefano. Lo stesso Masset fu poi richiamato a Parigi, rottura diplomatica che non capitava dal fascismo).
Il Quirinale e la Farnesina, e l’evoluzione politica con la caduta del governo gialloverde di Giuseppe Conte, hanno permesso all’Italia di recuperare il dialogo con la Francia e di raggiungere addirittura la sottoscrizione del recente Trattato per «una cooperazione bilaterale rafforzata». L’amichevole e accesissima competizione fra Roma e Parigi, che si percepisce in Europa e in Africa, in Libia soprattutto, rende profonda la stima di Macron per Draghi, ma lascia intatto il desiderio di Macron di primeggiare senza rivali.
La soluzione preferita dai francesi è condivisa da diversi politici italiani: almeno un ulteriore anno con Mattarella al Quirinale e Draghi a Palazzo Chigi. Questo stride con le intenzioni di Washington: guai a fare previsioni sulle dinamiche dell’Unione, Draghi rischia di finire stritolato dalle dinamiche politiche. Le scommesse europee sono pericolose. Nel ’38 gli europei celebrarono la conferenza di Monaco certi di aver soddisfatto gli appetiti espansionisti di Adolf Hitler e di aver scongiurato la Seconda guerra mondiale – l’inglese Neville Chamberlain ritornò a Londra sventolando l’accordo – e dodici mesi dopo ci fu l’invasione della Polonia. Si fatica a credere, ma i francesi sono più incisivi degli americani. Già da mesi l’ambasciatore Masset e il consigliere d’ambasciata Antoine Starky convocano e compulsano numerosi parlamentari. Ci si attende una campagna sempre più avvolgente per il Mattarella bis.
La Germania sta per uscire lentamente dall’epoca di Angela Merkel ed è preoccupata dalla gestione della “normalità” dei governi che si affacciano sul Mediterraneo: cosa succederà dopo la crescita, come rientreranno dai prestiti miliardari, quale atteggiamento avranno sulle politiche di bilancio (il patto di stabilità). Questioni che si risolvono con imprevisti contenuti se al governo di Roma c’è una maggioranza europeista (senza i leghisti, magari guidata dall’attuale commissario europeo Paolo Gentiloni) e allora Draghi vada pure al Quirinale.
In Vaticano piace molto la prospettiva di Berlino e di un pezzo di Unione europea anche per gli eccellenti rapporti personali tra il pontefice gesuita Francesco e il gesuita Draghi e lo stesso Gentiloni. I contatti sono frequenti. La Chiesa da decenni ha perso aderenza con la politica italiana e in questo momento la Conferenza episcopale italiana è impalpabile. Si aspetta l’esito del Colle con qualche speranza, poca rilevanza e un pregiudizio kantiano, non cristiano: mai Berlusconi. «Siamo seri», dice un cardinale italiano di recente nomina.
Gli inglesi assistono alle manovre sul Colle con il tradizionale distaccato approccio e sono completamente appiattiti sugli Stati Uniti. Unica maniera per avere un ruolo nel Continente. I cinesi e i russi concentrano altrove le energie. Draghi e Mattarella hanno la medesima impostazione Atlantica. E Pechino non riesce a instaurare un’empatia sufficiente con i parlamentari: «Un funzionario ti invita per un tè, scambia alcune chiacchiere e poi ti lascia come referente un membro del partito comunista. Così ci si scontra col dogma. Le sfumature diplomatiche non sono difficili: sono impossibili», racconta un deputato leghista. È lontana la sera in cui Conte al telefono con Vladimir Putin concordò lo sbarco dei medici militari russi all’inizio della pandemia.
Rispetto al goffamente felpato Conte, in entrambe le versioni di governo, l’ex governatore della Banca centrale europea ha introdotto un linguaggio più ruvido, tipico del registro dialettico degli americani, nel trattare i regimi autocratici.
All’esordio definì il turco Recep Tayyip Erdogan un «dittatore». Con Putin e i suoi epigoni non ci può essere sintonia. Draghi garantisce una porzione di mondo: non può sbandare in geopolitica.
Insomma per l’Unione e gli Stati Uniti, sorvolando sulle ambiguità francesi, Draghi potrebbe fare un sopralluogo al Quirinale. Adesso arriva il difficile. Tocca ai 1.008 parlamentari riuniti e delegati regionali che prevalentemente se ne infischiano di Berlino e Parigi e al massimo ci vanno in vacanza. Votano loro. E lo fanno al buio.