Il Quirinale, le dimore dei Colonna e dei Doria ?Pamphilj. E le loro collezioni di quadri di incredibile ricchezza, “più che a Versailles”. Un patrimonio da riscoprire

Palazzo Colonna. Sala grande
Roma da anni è al centro dell’attenzione e quasi sempre per ragioni assai poco onorevoli: tanto che s’è parlato di “capitale immorale” d’Italia. Vengono a mente celebri titoli che hanno fatto la storia del giornalismo: “l’Espresso” titolò “capitale corrotta nazione infetta”, un’icasticità semantica che potrebbe essere replicata. Ma qui non si vuole arricchire le geremiadi su malaffare e insipienza politica, ma dire della Roma trionfante che, malgrado tutto, resta un serto di Mirabilia che poche città al mondo possono vantare.

C’è sul tema una letteratura sterminata di viaggiatori che testimonia quanto il Caput Mundi fosse l’ombelico della civiltà europea in età moderna e Roma tenne questo primato per almeno quattro secoli e la sua decadenza comincia dalla Breccia di Porta Pia quando fu strappata al potere temporale dello Stato pontificio. Non sfiorerò questo argomento, ma conviene spezzare una lancia a difesa di Roma e l’occasione mi è offerta dalla contemporanea pubblicazione di quattro volumi che celebrano assai degnamente collezioni d’arte e palazzi unici al mondo.
La piazza e il palazzo del Quirinale

Mi riferisco al libro fotografico “Il Quirinale”, Enciclopedia Treccani, “Palazzo Colonna. Catalogo dei dipinti”, De Luca editori e “Palazzo Colonna. Immagini nel tempo”, Allemandi, “Collezione Doria Pamphilj. Catalogo generale dei dipinti”, Silvana editoriale. Non si può cominciare che dal Quirinale già sede papale. La storia del Quirinale è ben nota e la curatrice Renata C. Mazzantini ce ne offre i tratti essenziali, mentre il fotografo Massimo Listri ci racconta con le sue splendide immagini il groviglio di ambienti che ne sono parte: foto tanto più apprezzabili perché rifuggono da qualunque effetto scenografico, avvalendosi solo della luce naturale che pervade di sé saloni, ambienti e splendidi giardini con nitore e raro equilibrio. Lo stesso stile di Listri si ritrova in “Palazzo Colonna”, a cura di Daria Borghese.

Il racconto di Casa Colonna principia da Martino V Colonna al rientro dall’esilio di Avignone e la sua storia è intimamente intrecciata a quella della città, sicché ha ragione Claudio Strinati che si possa dire di una storia del collezionismo di un “avanti Colonna” e di un “dopo Colonna”. Il deus ex machina è stato nei decenni Eduard Safarik e della sua passione fanno tesoro Patrizia Piergiovanni e i suoi collaboratori nel redigere il catalogo rinnovato di questa collezione che, sia ben inteso, non è un museo ma una raccolta di una famiglia che rintocca nella Commedia quando Dante evoca l’acerrima rivalità tra “orsatti e colonnesi”.
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Le figure di spicco per la creazione della collezione sono stati i principi Filippo I (1578-1639) e Marcantonio V (1608-1659), l’apice s’ebbe con Lorenzo Onofrio (1637-89) quando Roma è l’ombelico della civiltà barocca, centro di una nuova luce che s’irradia in tutta l’Europa. A metà Seicento la collezione comprendeva 1560 dipinti nella sede romana e altri 4 mila nei feudi sparsi. Ma ci furono incrementi importanti quando Fabrizio Colonna sposa nel 1718 Caterina Salviati, di una grande famiglia fiorentina, che portò in dote una splendida collezione non solo di artisti della sua città (i Bronzino, gli Allori), ma anche emiliani come Reni, Albani, Carracci (di Annibale “Il mangiafagioli”, apice di una via realista) e veneti come Veronese e i Tintoretto. Salvatore Colonnelli Sciarra dipinse due fini acquerelli (1730) che frontalmente ci illustrano le due pareti della Galleria e della sala della Colonna Bellica. Un documento prezioso. Perché questa è una storia di stratificazione, ma anche una storia di perdite e di dispersioni, la più grave delle quali rimanda alle vessatorie condizioni imposte dal Trattato di Tolentino (1797) a papa Pio VI e i Colonna contribuirono con generosità. Tra le perdite la “pala Raffaello”, oggi al Metropolitan Museum di New York. Una rinascita si avrà con Aspreno Colonna e suo figlio che da veri mecenati nella prima metà dell’Ottocento acquistarono sul mercato antiquario memorabili opere. Dire delle 300 schede della collezione è un’impresa, ma basti ricordare che De Brosses scrisse che la Galleria Colonna è «forse più bella di quella di Versailles, che è più lunga e ornata, ma questa più solenne e senza paragoni, persino a Roma», per l’astronomo Lalande e Stendhal la visita al Palazzo di piazza Santi Apostoli fu un’emozione indimenticabile. A me basta ricordare, per deformazione professionale, la magnifica suite delle dodici vedute di Gaspard Dughet, ben degne di Nicolas Poussin.
Palazzo Doria Pamphilj a via del Corso

A poca distanza Palazzo Doria Pamphilj sul Corso, a cui va aggiunta la collezione del principe di Genova: una collezione privata ma di fatto pubblica, come giustamente sottolinea Andrea G. De Marchi, in un denso testo che è un punto a capo nella storia della collezione e del palazzo accresciutosi nel tempo a partire dal Cinquecento che nel 1647 si arricchisce del braccio nel lato verso il Collegio Romano. I Pamphilj erano originari di Gubbio e non erano ricchi come i Colonna, ma l’elezione a papa di Giovan Battista, col nome di Innocenzo X (1644-1655) mutò il destino del casato. Roma era a quel tempo centro mondiale del mercato dell’arte e fu il nipote Camillo a nutrire un’autentica passione mecenatesca e il Guardaroba (1650), cioè l’inventario, conta già 319 tele che crebbero in modo incredibile, grazie anche al suo consigliere fiammingo Michael Sweerts: a testimonianza del fatto che Camillo aveva una autentica passione per la pittura dei Paesi Bassi e spiccano Pieter e Jan Bruegel, Quentin Massys, Jan de Momper e Paul Brill. I Pamphilj amano i paesaggisti come Lorrain e Dughet, ma acquistano la “Buona ventura” del giovane Caravaggio, oggi al Louvre e donato al Re Sole. Anche in tal caso ci sovviene un disegno del progetto di riallestimento della Galleria che si deve a Francesco Nicoletti.
Palazzo Doria Pamphili. Annibale Carracci. Susanna e i vecchioni

Si rimane storditi alla lettera dinanzi alla “Fuga in Egitto” di Caravaggio ed è per me sempre uno choc sostare dinanzi ad uno dei più bei ritratti che siano mai stati dipinti nella storia dell’arte occidentale. Il ritratto di papa Innocenzo X di Diego Velázquez risale al secondo soggiorno romano del pittore spagnolo tra il 1649 e il ’51. Il pittore, nella lettera che il papa ha in mano, appone la sua firma ed è con ogni probabilità un messaggio diplomatico molto importante perché segna la riconciliazione di Filippo IV con il pontefice romano, spezzando una secolare politica filofrancese. Qui il papa non benedice nessuno, l’altra mano è solo poggiata sul bracciolo del seggio su cui siede. L’intensità dello sguardo è un’anamnesi della sua forte personalità: la berretta e la mantella sono di un rosso vivo, colore spezzato solo dalla bianca veste che indossa papa Innocenzo. L’olio su tela (141 x 119 cm) è un’icona insuperata della ritrattistica e nel corso dei secoli ha affascinato letterati, storici e artisti di ogni tempo. L’ultimo dei quali fu il grande Francis Bacon che ne trasse molte tele degne metamorfosi dell’insuperato modello a cui attinge.

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