Ricardo Darín, procuratore contro il regime argentino: «Per perseguire i criminali serve sangue freddo»

Giustizia, dignità, memoria. Al centro di “Argentina, 1985”, film-capolavoro sul processo ai gerarchi della dittatura di Videla. Il grande attore interpreta il magistrato Strassera. “È una storia universale”

“Argentina, 1985”. È il titolo del nuovo film di Santiago Mitre, disponibile su Amazon Prime Video, che vede protagonista Ricardo Darín - classe 1957, attore argentino di spicco nel panorama cinematografico mondiale - nei panni del procuratore Julio Strassera. Sotto costante minaccia, senza mai rinunciare all'umorismo e affiancato da un’improbabile quanto coraggiosa squadra legale, si cimenta in una battaglia in pieno stile Davide contro Golia e diventa un eroe suo malgrado. L’obiettivo è ambizioso e delicato: indagare e processare i gerarchi della più sanguinaria dittatura militare argentina. Portare alla sbarra i vari Videla, Massera e i generali della giunta golpista per fare giustizia e restituire voce e dignità alle innumerevoli vittime e parenti delle stesse. Un film-capolavoro sulla ricerca della verità contro tutti e tutto, sulla condanna assoluta di violenze e torture di stato e sul valore dell’integrità personale e collettiva, che impone una riflessione importante sulle aberrazioni del potere. Oggi come ieri.

Darín, com’è stato calarsi nei panni di Strassera?
«Ho dovuto lavorare molto sull’autostima. All’inizio del film lui ne ha poca, all’epoca nessuno credeva che il processo sarebbe stato possibile. L’avvento della democrazia era fresco, la ricerca della verità faceva ancora paura, non era neanche immaginabile poter perseguire gli aguzzini che per anni perpetrarono violenze e torture atroci in Argentina. Strassera si impegna e ci crede ogni giorno di più, anche grazie ai giovani legali di cui si circonda – là dove i suoi esimi colleghi coetanei si defilavano uno dopo l’altro – per sfidare insieme con convinzione un intero sistema. Si trattava di una missione complessa: trovare le prove inconfutabili che potessero inchiodare coloro che avevano impartito ordini disumani. Perché chi è al comando non si sporca mai le mani, non usa direttamente le armi: per processarli occorreva provare che avessero ordito un piano di annientamento sistematico, un vero e proprio sterminio».

La sfida più grande di un personaggio come questo?
«Saper gestire la rabbia. Per perseguire i criminali serve sangue freddo, non puoi farti guidare dall’ira. Il rischio di chi fa il lavoro di Strassera è farsi coinvolgere umanamente: ascoltando le testimonianze come attore e come essere umano tutto mi colpiva e attraversava, ma sapevo di dover tenere alto l’equilibrio e il controllo proprio come Strassera, che non poteva e non doveva cadere nello stesso errore delle persone che intendeva perseguire, accecate da un sentimento distruttivo».

Perché è importante raccontare oggi un processo che ha reso giustizia alle vittime di un regime dittatoriale?
«Perché il cinema parla a tutti. Il film racconta una storia universale sulla giustizia, la dignità, la memoria. Ho fatto molte ricerche, parlato a lungo con il regista e gli sceneggiatori, visto documentari e letto quante più notizie e documenti sull’epoca. Non è un film che racconta “solo” quello che è successo in Argentina. Basta guardarsi intorno, vedere che cosa sta accadendo nel mondo. Molti popoli stanno tuttora soffrendo, subiscono le azioni di governi che non rispettano le minoranze, che inneggiano all’intolleranza verso l’altro, lo straniero. La violenza è ancora molto forte e diffusa nel mondo. Sono tempi difficili, dolorosi per tutti».

Rispetto al 1985 va meglio o peggio?
«Alcune cose sono cambiate per il meglio. Allora non c’erano neanche i cellulari, oggi abbiamo un’immediata trasmissione di notizie, basta un tweet o un messaggio istantaneo per sapere cosa succede in una stanza. C’è una comunicazione rapidissima che a volte è anche distorta, ma sempre preferibile alla nebulosità di chi mira a tenere nascoste le cose. Resta tuttavia ancora tanto lavoro da fare, per restituire dignità a tutte quelle persone che ogni giorno, loro malgrado, continuano a perderla in vari Paesi del mondo».

In effetti nel 2022 la democrazia è ancora estremamente fragile nel mondo. Come lo spiega?
«Da più parti stanno rispuntando nuovi spargitori di odio e intolleranza che vanno a diffondere e risvegliare quel sentimento insito nel Dna umano per cui è più facile puntare il dito che conoscere, giudicare più che capire, escludere più che accogliere e annientare l’altro anziché parlarci. Persino con il nostro pianeta, l’unico che abbiamo, abbiamo problemi a rispettarlo e fatichiamo a conviverci pacificamente. Per questo film come “Argentina, 1985” sono importanti: mostrano che un’altra via è percorribile, perché è stata effettivamente percorsa da persone comuni che hanno scelto di saltare oltre le proprie paure, oltre le minacce, oltre i pericoli individuali per sostenere tutti insieme una causa comune. Solo questo spostamento di prospettiva oggi può salvarci: dall’io al noi, dal battersi per il proprio individualismo alla lotta per il bene comune».

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