Suo nonno Rudolf von Urban era uno psicoanalista autorevole che collaborava con Sigmund Freud e scrisse libri sull’inconscio, il sesso e l’importanza dell’autostima. Deve averli presi alla lettera Christoph Waltz, credendoci talmente tanto da riuscire, dopo ben trentacinque anni di carriera, a farsi notare da Hollywood. Aveva 53 anni quando Quentin Tarantino lo provinò e poi lo scelse per il ruolo del gerarca nazista Hans Landa in “Bastardi senza gloria”. Interpretazione memorabile che gli valse una pioggia di premi (una trentina tra Oscar, Bafta, Golden Globe e Gran Prix a Cannes e altri), spianandogli la strada non solo per il secondo Oscar (per “Django Unchained”, sempre di Tarantino), ma anche per una serie di ruoli da antagonista, da “Spectre” a “The Legend of Tarzan”, perché «il cattivo ha sempre più possibilità e sfumature».
La contropartita richiesta sta nel sospendere ogni giudizio e imparare a maneggiare bene ciò che ammette di odiare di più. «Le armi non le sopporto, nella vita reale non ne sono mai stato un sostenitore». Eppure a guardarlo in “Dead for a dollar”, western diretto da Walter Hill appena presentato alla Mostra del Cinema di Venezia con Willem Dafoe, sembra aver maneggiato pistole per una vita intera.
Come riesce ad essere convincente nei ruoli più assurdi?
«Sono sempre i dettagli che fanno la differenza, ecco perché nello studio dei particolari sono maniacale. Non posso manovrare “genericamente” un’arma per essere credibile. Devo studiarla a fondo in ogni suo aspetto per risultare convincente quando mi vedete premere il grilletto».
Si pone mai problemi morali rispetto ai personaggi che interpreta?
«Di quale morale parliamo? Della mia no, perché non interpreto me stesso per fortuna. Di quella dei personaggi neanche, perché ognuno di loro condivide con me il corpo, non i suoi pensieri».
Come si regola allora, prende una vacanza da se stesso per ospitare un personaggio?
«Dipende dal personaggio. Non sono il tipo di attore che ama saltare da un progetto all’altro. Non lo faccio per chissà quale nobile motivo artistico, non credo ai metodi tradizionali di recitazione, tanto meno al fatto che questo mestiere possa ridursi a uscire e entrare dai personaggi. C’è molto altro».
È nella rosa degli attori più stimati del mondo. Che effetto le fanno premi e complimenti?
«I premi sono riconoscimenti, i complimenti un pericolo ad alto rischio. Perché quando il feedback che ricevi è positivo hai la tendenza a ripeterti. Sin da bambini abbiamo imparato a non fare quello che la mamma ci ammoniva a non fare, o ascoltare la nonna quando ci diceva “bravissimo” indicandoci la strada da percorrere. I complimenti sono una vera trappola per un attore, rischiano di fermarti lì dove sei».
Dove sente di essere oggi, lei che è un europeo “insider” a Hollywood?
«Sento di avere una prospettiva abbastanza privilegiata, ho fatto esperienza di entrambi i cinema, europeo e americano, sia da dentro che da fuori. È utile e interessante l’esercizio di cambiare punto di vista e prospettiva di continuo».
Che cosa le ha insegnato questo continuo sguardo dentro/fuori?
«Mi ha fatto capire che senz’altro le differenze culturali sussistono, ma il cinema europeo a volte rischia di emulare senza un motivo quello americano. È un gran peccato. Le faccio un esempio: di recente ho visto tutti i film di Vittorio De Sica. Ho amato tutto, le storie, i personaggi, l’atmosfera, la disperazione e la gioia, quella lucida osservazione di tutto ciò che era profondamente sbagliato nella società di allora – tutto è unico nei suoi film. Si può fare qualcosa di meglio al cinema? Non credo. Prendiamo invece i film italiani contemporanei. Ho visto “Gomorra”. L’ho trovato interessante, anche la storia mi è parsa buona, ma esteticamente e tematicamente era davvero così distante da un film americano dello stesso genere? Non credo. Ed è un peccato, emulando i film americani perdiamo la nostra unicità. In questo sono più “svegli” loro, non ci provano neanche a imitare i film europei».
Com’è, da europeo, trovarsi a interpretare un western?
«È curioso, si fa un gran dibattito sull’appropriazione culturale, eppure il maestro dei western per noi europei resta Sergio Leone, lo consideriamo più western dei western. È chiaro che il modo in cui giudichiamo questo genere è diverso dal vederli sotto una lente prospettica americana. In America il western fa parte del Dna culturale e storico, mentre per gli europei la conquista del West non è mai stata la priorità – anche perché per noi austriaci sarebbe stata la Svizzera, si figuri. Mio nonno emigrò davvero in America ai tempi, andò in un certo senso nel suo West, in California, ma è un’altra storia».
Abbiamo attraversato anni difficili. Quanto ha impattato su di lei la pandemia?
«So di appartenere a una categoria privilegiata, non devo alzarmi ogni mattina per timbrare il cartellino. Durante il lockdown me la sono passata piuttosto bene, ho avuto modo di ascoltare molta musica e avuto il lusso di rileggere i grandi libri che mi ero ripromesso di affrontare quando ne avrei avuto il tempo».
Qualche titolo?
«Il “Doctor Faustus” di Thomas Mann e i libri di Heimito von Doderer».
Ha accennato al suo amore per la musica: come si è trovato a dirigere l’opera lirica “Il cavaliere della rosa” di Strauss e il “Falstaff” di Verdi?
«Così bene che riporterò con entusiasmo “Il cavaliere della rosa” il prossimo anno a Ginevra. È grandioso avere una seconda chance, a teatro ogni replica lo è, al cinema invece hai una sola possibilità, quando mi riguardo poi sullo schermo ogni tanto mi dico: “Accidenti, potevo farlo meglio”, ma ormai è andata».
Sarà Billy Wilder nel film di Stephen Frears tratto dal romanzo di Jonathan Coe “Billy Wilder & Me”. So che non può ancora parlarne, può dire però in base a che cosa sceglie oggi di accettare o no un ruolo?
«Non ho una regola, ci sono periodi in cui voglio lavorare e scelgo secondo quel criterio, altre volte mi interessa la discussione che si innesca attorno a una storia, altre ancora scelgo in base alle persone con cui mi piacerebbe ritrovarmi sul set. Altre ancora, come per Wilder, mi offrono ruoli che per me sono un sogno».
Non deve essere un attore facile da dirigere lei…
«Amo essere diretto da registi specifici, capaci di darmi indicazioni esatte, perché solo stringendo al massimo il campo, al microscopio, riesci a cogliere l’essenza di quello che stai raccontando. Per questo non sono un attore che improvvisa, rispetto troppo gli sceneggiatori e amo i cineasti con una visione precisa, come Tarantino che scrive i film di suo pugno. Il mio obiettivo non è riscrivere un film, ma imparare la mia parte così bene che sembri l’abbia scritta io».