L’ampiezza che la presenza dell’industria ha raggiunto nella società italiana è testimoniata oggi soprattutto dai segni della sua ritirata, che restano incisi nel territorio, soprattutto nei vuoti scavati all’interno delle grandi aree metropolitane del Nord Italia. Ma l’industria, i cui numeri sono in riduzione costante, è stata nel corso del Novecento una forza che ha modellato, insieme con lo spazio, l’economia e il sistema sociale, stampando ovunque la propria orma. Lo provano le circa mille immagini che formano il percorso della mostra “Scatti di industria. 160 anni di immagini dalla Fototeca Ansaldo”, che si terrà a Genova, a Palazzo Ducale, dal 29 ottobre al 30 novembre.
[[ge:rep-locali:espresso:285110791]]Perché l’Ansaldo? Non soltanto per le dimensioni che avuto il gruppo industriale ligure nella storia economica d’Italia e perché le sue produzioni hanno abbracciato tutti gli ambiti, dalla siderurgia alla cantieristica alla meccanica. Ma perché l’Ansaldo è stata la prima delle grandi imprese del nostro Paese a comprendere l’importanza di comunicare attraverso l’immagine fotografica. Lo diceva Ferdinando Maria Perrone, l’artefice dello sviluppo dell’Ansaldo, nel 1895: «Non c’è come il metodo grafico - la figura - per parlare alle masse e anche alle più intelligenti e per richiamare l’attenzione. Ciò che si spende in réclame è semente preziosa, nessun danaro la paga». Ciò spiega la lunga collaborazione con i fotografi e, nel 1911, la creazione di un laboratorio interno di fotografia. Osserva perciò Luca Borzani, nella bella introduzione al catalogo della mostra, che fin da subito la rappresentazione fotografica dell’industria è essenzialmente volontà di autorappresentarsi. È quanto aveva notato quasi vent’anni fa colui che è stato lo storico più acuto dell’industria italiana, Duccio Bigazzi, in un saggio ora opportunamente riedito dalla Fondazione Dalmine e dalla Fondazione Isec di Sesto San Giovanni, scrivendo che le foto custodite negli archivi aziendali sono «ben lontane dal costituire testimonianze autonome e obiettive della vicenda dell’impresa». Si tratta di documenti ancor meno neutrali delle altre tracce della vita economica, perché le immagini sono sempre legate a una finalità, all’intento di trasmettere un’idea precisa della fabbrica e del suo universo organizzativo e sociale.
In un certo senso, la comunicazione aziendale nasce con la fotografia, come ci si rende conto addentrandosi nel percorso fotografico tratto dai fondi storici dell’Ansaldo. Perrone aveva pensato all’immagine per informare il pubblico delle opere maggiori che i suoi cantieri e le sue officine realizzavano, a cominciare dalle grandi navi destinate a solcare i mari di tutto il mondo. Era dunque necessario far sapere alla stampa internazionale da dove venivano quelle navi e chi le aveva costruite. Il varo delle grandi imbarcazioni transatlantiche costituisce così un’occasione insostituibile per far conoscere al mondo quanto l’Ansaldo può creare. I grandi scafi che entrano in acqua intendono mostrare ciò di cui è capace l’organizzazione produttiva; in seguito verrà il turno di illustrare come quegli scafi si siano trasformati in poderose navi da crociera, che entrano fiere nel porto di New York, sfilando sotto lo skyline dei grattacieli.
Le navi come i treni come le locomotive sempre più potenti e gli aerei sono i prodotti di cui l’azienda si serve per propagandare il proprio contributo alla modernità. Una modernità che si esprime anzitutto in dimensioni gigantesche, titaniche: lo sforzo della comunicazione appare centrato su quella che per l’Italia è una novità, la capacità di effettuare costruzioni metalliche enormi, la cui grandezza risalta in rapporto alle figure umane, che vengono usate come un indicatore di misura. Una produzione che vuole apparire colossale, al pari della trasformazione a cui sta sospingendo l’Italia e che tocca lo spazio e il tempo, cambiando i modi di vita delle persone. Sui transatlantici salgono sia i lavoratori che vanno in America sia una star del cinema muto come Mary Pickford, che si fa ritrarre sorridente nella cornice di un salvagente.
La forza più profonda che anima la macchina dell’industria è però la guerra. L’Ansaldo è una grande protagonista della prima guerra mondiale, con i suoi armamenti e i suoi mezzi di combattimento, in cui ora spiccano gli aerei da combattimento. Nella dedica che Gabriele D’Annunzio verga su una sua foto nel settembre 1918 si legge: «Al comm. Mario Perrone / fabbro di guerra / il monocolo alato». Come e più dei futuristi prima di lui, D’Annunzio celebra, insieme, la forza e la bellezza delle armi, soprattutto di quelle inusitate, siano aerei o motosiluranti, che permettono di far dimenticare che la guerra non è la terribile, prosaica realtà della trincea, quella affrontata dalla massa dei soldati, ma velocità, audacia, avventura individuale.
Il conflitto muta l’Ansaldo, ne estende gli impianti e la popolazione di fabbrica, ma in certo modo sottrae il gruppo industriale all’alveo della sua storia. Lo prepara alla nuova cornice del fascismo, che peraltro potenzierà i suoi caratteri portanti. Sarà la Fiat ad adottare negli anni Trenta come proprio slogan la sequenza “terra, mare, cielo”, a significare la propria vocazione a intervenire su tutti i fronti; ma qualcosa di analogo può valere anche per l’Ansaldo, che interviene sull’intera infrastrutturazione del Paese, fornendo oltre che mezzi di trasporto e armamenti anche turbine e macchine per la produzione di energia elettrica.
Nel passaggio d’epoca, la fotografia non perde certo il proprio rilievo. Il fascismo è più che mai incline a documentare orgogliosamente le realizzazioni dell’industria nazionale. E si pone anche il problema di raffigurare la vita collettiva dei lavoratori. Ora non ci si limita a cogliere certi atteggiamenti e posture di lavoro, magari chiedendo agli operai di mettersi in posa. Emblematica del nuovo clima politico e sociale è la foto in cui compare un gruppo di giovani lavoratrici: potrebbe sembrare persino un segno di emancipazione, non fosse che il fotografo ha raccolto le donne sotto un cartello in cui si richiamano i doveri dell’obbedienza e l’esortazione perentoria a lavorare in silenzio.
La fabbrica, tuttavia, è diventata così anche un fatto sociale e più corale. Per i suoi lavoratori e per i mutamenti che innescano nella vita collettiva le sue opere, certo, ma anche perché l’impresa ora organizza il tempo libero e provvede a intervenire nella sfera familiare, per esempio organizzando le colonie per i figli dei dipendenti.
Questo tratto non verrà meno neppure nell’Italia repubblicana, quando pure sarà inevitabile documentare anche i risvolti politici e sindacali della vita di fabbrica. Ma la fotografia potrà comunque situarsi nel solco della grande modernizzazione pacifica che accompagna il boom industriale, quando l’accento verrà di nuovo a cadere sulla civiltà pervasiva innescata dalla produzione industriale, sebbene ormai depurata di quelle forme di irreggimentazione che l’avevano caratterizzata in precedenza.
Man mano che ci si sofferma sulle foto dell’ultima parte del Novecento, alcune delle quali colpiscono per la loro bellezza estetica, il filtro del passato si attenua e tendono a prevalere gli interrogativi. Il lavoro e gli stessi confini dell’industria sfumano. Per rappresentarli si sceglie di enfatizzare un elemento particolare, magari una gradazione di luce. Il mondo della produzione perde i suoi confini e la sua stessa consistenza. È il frutto della società dei servizi che si sostituisce a quella dell’industria, certo. Ma anche l’effetto del disgregarsi di un’Italia delle fabbriche e del lavoro che sparisce sotto i colpi della crisi, oltre che del cambiamento globale. E che lascia depositare l’inquietudine per le prospettive di un paese che contempla il suo passato mentre dubita del proprio futuro.