Industria

Acciaierie d’Italia: profitto privato e debito pubblico per l’ex Ilva

di Gloria Riva   7 luglio 2023

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Nel bilancio 2022 l’azienda dichiara 2 miliardi di debiti commerciali, i tre quarti nei confronti di società del gruppo, per lo più della stessa Arcelor Mittal. Il sindacato avverte: «Questa gestione consegna i profitti al socio privato e scarica sulle risorse pubbliche le perdite»

Ingresso negato. Dri, che sta per Direct Reduced Iron, è una società pubblica in pancia a Invitalia appositamente creata per realizzare due impianti di preridotto – utili ad alimentare sia i forni elettrici dell’ex Ilva sia quelli delle acciaierie del Nord Italia – e così decarbonizzare il ciclo produttivo dell’acciaio. I tecnici della Dri dovrebbero entrare nel perimetro industriale di Acciaierie d’Italia, l’ex Ilva di Taranto, appunto, per effettuare i rilievi nelle zone in cui devono essere installati i due impianti (che dovrebbero essere alimentati a idrogeno, hanno un costo complessivo di un miliardo di euro e sono finanziati dal Pnrr). Ma Acciaierie d’Italia sta negando l’accesso ai tecnici della Dri. Un impedimento non da poco, perché senza una valutazione delle aree salta il processo di decarbonizzazione dell’acciaio italiano da avviare entro il 2026.

 

È questo, in concreto, l’effetto della triangolazione di missive al vetriolo scambiate a fine maggio tra il presidente di Acciaierie d’Italia, Franco Bernabè, e l’amministratrice delegata della stessa, Lucia Morselli, inviate all’azionista pubblico. Che, in teoria, ha messo i soldi per salire in maggioranza, in pratica si fa dettare la linea dall’azionista privato, ovvero il colosso franco indiano ArcelorMittal. E l’accesso negato non è neppure il problema più grave che attanaglia la più grande acciaieria d’Europa, la quale s’appresta a trascorrere un’estate infuocata fra udienze, sentenze e scadenze.

 

La cassa integrazione
Era il marzo 2022 quando la Uilm, per prima, si rifiutò di firmare la cassa integrazione straordinaria per tremila dipendenti. All’epoca il segretario dei metalmeccanici della Uil, Rocco Palombella, aveva mostrato all’ad Morselli l’accordo (l’unico) firmato nel 2018, nel quale – a fronte di un taglio complessivo della forza lavoro da 14.200 a poco più di diecimila dipendenti – si statuiva che lo stabilimento di Taranto – che prima dell’inchiesta giudiziaria “Ambiente Svenduto” aveva una capacità produttiva di 10 milioni di tonnellate – avrebbe prodotto sei milioni di tonnellate, garantendo il lavoro a 8.178 persone. Insomma, Palombella aveva chiesto di tenere fede ai patti e di tornare a produrre acciaio, visto che il mercato italiano lo richiedeva.

 

 

Ora anche Fim e Fiom hanno capito che qualcosa non torna nello schizofrenico ricorso alla cassa integrazione straordinaria. In particolare, a inizio maggio Morselli, nominata da ArcelorMittal, ha dapprima annunciato l’arrivo di 60 milioni di nuovi ordini in concomitanza con la ripartenza dell’altoforno 2 e subito dopo ha richiesto un’ulteriore tranche di cassa integrazione straordinaria in deroga per 2.500 dipendenti, coinvolgendo non solo la sede di Taranto, ma anche gli impianti di laminazione di Genova e Novi Ligure. «L’assenza di chiarezza da parte dell’attuale management, in merito agli assetti produttivi e alla destinazione dei prodotti semilavorati che derivano dagli aumenti produttivi, genera una situazione allarmante, visto che, di fatto, vi è un utilizzo anomalo della cassa integrazione anche negli stabilimenti del Nord. Tutto fa pensare a una gestione che consegna i profitti al socio privato e scarica sulle risorse pubbliche le perdite», ha dichiarato Roberto D’Andrea della Fiom Cgil.

 

La situazione è quindi precipitata: anche Fim e Fiom hanno deciso di non firmare la cassa integrazione e, con un rimpallo di responsabilità, la Regione Puglia ha alzato le mani, affermando di non avere più poteri (e neppure le risorse) per finanziare l’ammortizzatore sociale. È stato necessario l’intervento del Consiglio dei ministri che, la settimana scorsa, ha inserito nell’ultimo decreto legge una norma ad hoc per garantire ai 2.500 dipendenti ex Ilva il paracadute sociale fino alla fine dell’anno.

 

I conti
La questione cassa integrazione scarica sull’attuale governo, e in particolare sul ministro per le Imprese, Adolfo Urso, un’ulteriore dose di responsabilità perché «non c’è un piano di rilancio, non c’è un piano industriale, non c’è neppure una situazione di crisi nazionale o internazionale del settore dell’acciaio: quindi non è possibile giustificare la cassa integrazione», per dirla con le parole del sindacalista Uilm Davide Sperti che stima in 15 miliardi di euro il costo per le casse pubbliche degli ammortizzatori sociali e della decennale procedura di salvataggio dell’ex Ilva. È allora chiaro perché il ministro Urso abbia una certa fretta di salire in maggioranza, sostituire la governance di Acciaierie d’Italia, avviare il processo di decarbonizzazione, ultimare il piano ambientale per la messa in sicurezza del sito, ottenere quindi il dissequestro degli impianti e, infine, fare spazio a nuovi azionisti: alla finestra ci sono Arvedi e Marcegaglia interessati a una quota di minoranza del 20 per cento. Facile a dirsi, quasi impossibile a farsi: in realtà, l’azionista pubblico, con un finanziamento da 680 milioni di euro (che segue a una prima tranche da 400 milioni), avrebbe già i numeri per essere il socio di maggioranza, ma, finché non sarà concluso il piano ambientale, la magistratura non consentirà il dissequestro degli impianti e, quindi, gli stessi non potranno essere acquistati dallo Stato. Una situazione contorta che, da contratto, dovrebbe risolversi nella primavera del 2024. Ma alla luce degli innumerevoli fronti aperti, Urso ha fretta di portare lo Stato in maggioranza prima di quella data: «Siamo arrivati al momento decisionale», ha detto.

 

Del resto, anche i numeri del bilancio 2022 mostrano una palese intenzione di tenere il freno a mano tirato in AdI: in un anno record per ArcelorMittal e per la siderurgia nazionale e internazionale, la società con base a Taranto ha prodotto 3,5 tonnellate d’acciaio, ben al di sotto del vincolo delle sei tonnellate imposto, mentre lo spedito è a quota 3,2 milioni, meno dei 3,7 dell’anno precedente. Paradossalmente sembra che i ricavi aumentino (dai 4,6 miliardi del 2021 a 5,4 miliardi), ma solo perché il costo dell’acciaio è lievitato. Per far fronte al «fabbisogno di cassa derivante dal finanziamento del circolante», è scritto nel bilancio, l’azienda non punta tanto all’aumento della produzione e della vendita di bramme d’acciaio, piuttosto intende ricorrere a «misure pubbliche», «anche alla luce delle previsioni contrattuali definite nell’ambito degli accordi tra i soci della controllante». Detto altrimenti, come già avvenuto in passato, i 680 milioni sganciati dallo Stato rischiano di servire per fa fronte alla carenza di liquidità anziché per il rilancio. Una situazione ancor più paradossale se si considera che, dei due miliardi di debiti commerciali, i tre quarti (1,438 miliardi) sono nei confronti di società del gruppo, per lo più della stessa ArcelorMittal, con un peso in crescita di 200 milioni rispetto all’anno precedente. Un’interdipendenza che potrebbe approfondirsi nel 2023, visto che gli stop dell’altoforno A a Gijón, in Spagna, e dell’altoforno 4 a Dunkerque, in Francia, potrebbero aver spinto ArcelorMittal ad aumentare la produzione di bramme a Taranto.

 

«L’elevato uso di cassa integrazione nei laminatoi fa pensare che la lavorazione del materiale grezzo sia avvenuta in impianti di ArcelorMittal collocati altrove», spiegano i rappresentanti dei lavoratori, invitando quindi l’azionista pubblico ad aprire gli occhi sul possibile abuso di cassa integrazione.

 

Le scadenze ambientali
A questo si aggiungono i problemi ambientali e giudiziari. Il sindaco della città di Taranto, Rinaldo Melucci, il 22 maggio scorso ha emanato un’ordinanza di chiusura degli impianti perché le centraline di Arpa Puglia hanno evidenziato livelli elevati di benzene. L’azienda si è rivolta al Tar Lazio, sostenendo che AdI è una società di interesse nazionale, ma i giudici amministrativi hanno stabilito che siano i colleghi di Lecce a decidere. Quindi il Tar della città pugliese ha momentaneamente sospeso l’ordinanza di chiusura del sindaco e fissato per il 13 luglio l’udienza decisiva. Come andrà a finire? La storia sembra un film già visto: nel 2020 lo stesso sindaco aveva ordinato la chiusura per emissioni inquinanti fuori norma, il Tar di Lecce aveva confermato l’ordinanza, che era stata impugnata dall’azienda, e sei mesi dopo il Consiglio di Stato aveva bocciato la decisione del tribunale amministrativo. Ma in quei sei mesi ogni decisione sul futuro dell’Ilva era stata congelata.

 

L’attuale preoccupazione è che si replichi quella situazione di stallo. A ciò si aggiunge il ritardo di Acciaierie d’Italia nel completamento delle opere di ambientalizzazione, cioè l’Aia: nel 2017 il legislatore aveva dato tempo fino al 23 agosto 2023 per ultimare il piano ambientale. A oggi mancano alcune bonifiche, come il trattamento delle acque meteoriche dell’area a caldo e gli interventi al porto. L’ordinanza comunale e i ritardi dell’Aia allontanano la possibilità che la magistratura esprima un parere favorevole al dissequestro degli impianti, rendendo più complicata la cessione all’azionista pubblico.

 

L’acciaio pulito in ritardo
Si allungano anche i tempi per la decarbonizzazione. Con due norme distinte, lo Stato ha assegnato a Dri il compito di eseguire gli impianti di preridotto, ma, nonostante questo, l’ad Morselli intende realizzarli per proprio conto. E, di fatto, ha bloccato la fase di analisi e studio preliminare. Va così in fumo il piano di avviare a luglio gli appalti per il preridotto, da installare entro il 2026 a carico del Pnrr. Visto il ritardo, il governo potrebbe decidere di finanziare il piano di decarbonizzazione attraverso il Fondo Sviluppo e Coesione per evitare di perdere i soldi del Pnrr. Il rischio è di veder allungare a dismisura i tempi di realizzazione dell’impianto. Per chi a Taranto vive e per chi all’ex Ilva lavora la notizia è stata fonte di sconforto: perché ogni tentativo di migliorare la situazione in quel pezzo di Puglia sembra sempre finire nel vuoto.