Dici Caparezza e pensi subito a quella sua chioma riccia da fulminato dall’alta tensione, un’immagine da cartone animato che ben si sposa con l’energia esplosiva dei suoi concerti e con la complessità semantica di certe canzoni, assieme colte e popolari, i testi dissacranti sparati a raffica che necessitano tutta la concentrazione di chi ascolta per essere compresi. Poi si salta e si balla tutti assieme, perché il segreto di Michele Salvemini da Molfetta (stesso cognome e medesima città d’origine del grande storico antifascista, Gaetano Salvemini, forse un lontano parente) consiste nel doppio, triplo livello di lettura cui si prestano le sue canzoni. Musica leggera che richiede impegno… Come il suo recente album, “Museica”, il numero sei, ispirato al mondo dell’arte.
Guardate per credere “Argenti vive” l’ultimo video postato su YouTube, ispirato a Filippo Argenti, un vicino di Dante Alighieri che il sommo poeta (Inferno, canto VII) raffigura immerso nelle acque maleodoranti dello Stige. Naturalmente anche nella vita di Caparezza (un assiduo utente di Twitter) la rete, da quando ha rivoluzionato il modo in cui si consuma e si distribuisce la musica, è diventata un riferimento imprescindibile.
Ora si assiste all’ennesima rivoluzione: le vendite del digitale diminuiscono (quelle su iTunes sono calate del 14 per cento dall’inizio del 2014) mentre aumenta esponenzialmente il fatturato dello streaming che anche in Italia ha registrato un + 37 per cento (dati FIMI) rispetto allo scorso anno. Se ne deduce che la musica in rete si compra di meno e si noleggia sempre di più. Al tempo stesso molti musicisti in tutto il mondo cominciano a usare con successo il sistema del crowdfunding (raccolta fondi attraverso la rete) per finanziare i propri progetti.
Ne abbiamo parlato con l’artista in una pausa della lunga tournée che fino all’inizio di settembre lo porterà da Grosseto a Sesto San Giovanni (4 settembre) passando per Potenza (21 agosto), Brescia (28) e Prato (3 settembre).
Cosa pensa del boom dello streaming? E in che misura queste novità influiscono sul suo lavoro?
«Per capire dobbiamo fare un passo indietro di quarant’anni. Sono nato nel 1973 per cui gran parte della mia vita si è svolta quando queste pratiche e la stessa musica digitale ancora non esistevano. Come ogni “nativo analogico”, ho coltivato la mia passione comprando i vinili e le musicassette e nel corso della mia vita ho visto spuntare vari cimiteri: quello della musicassetta; quello del mini-disc, che si pensava fosse la rivoluzione definitiva; quello del cd, un supporto creato, pensate un po’ per abbattere la pirateria. Poi è arrivato l’mp3, ma a quanto pare anche per questo formato già sentiamo intonare la marcia funebre. Ora lo streaming è l’ultima novità, ma sono sicuro che anche questo avrà vita breve per essere sostituito in futuro da chissà quale altra novità tecnologica».
Appunto, ma a un ragazzo cresciuto al tempo dei cari padelloni in vinile, questa guerra milionaria che si combatte sul web per il controllo della musica non fa paura?
«No, nessuna! Sono una persona abbastanza curiosa: sono abbonato a Spotify, pago i miei 9,99 euro al mese per ascoltare in streaming, senza interruzioni pubblicitarie, i brani che voglio. Sono uno che scarica legalmente decine di brani su iTunes, che trovo comodissima, ma continuo a frequentare fiere e negozi di vinile e a comprare tutti i dischi che mi piacciono. Questo per dire che il mio tempo non mi spaventa. Certamente ci sono stati supporti che dal punto di vista economico hanno garantito maggiormente l’artista rispetto ad altri. E penso che con lo streaming non ci sia ancora questa garanzia. La situazione è ancora molto fumosa. Per esempio, non si capisce in che modo le varie piattaforme gestiscano ascolti e relative classifiche. Non mi stupirei se scoprissero organizzazioni che si comprano gli ascolti manipolando le hit parade. Del resto a ogni riforma corrisponde una contro-riforma, è sempre stato così».
Un’altra rivoluzione mancata?
«Non proprio. Quando ho scoperto Spotify sono impazzito, ho capito che avrebbe dato a tutti la possibilità di ascoltare tantissima musica di ogni genere a prezzi tutto sommato contenuti. Inoltre, non dimentichiamo che lo streaming costituisce l’alternativa legale alla pirateria e al dilagare del download truffaldino. Però…».
Cosa non la convince?
«Alla fine, tanto su Spotify, quanto su Panorama o su iTunes, nelle prime posizioni trovi i vincitori di X Factor o artisti che comunque sono spesso in Tv: vuol dire che stiamo parlando di una rivoluzione relativa. La rivoluzione vera c’è stata quando negli Anni 80 le Bangles cantavano “Video Killed the Radio Stars”, si era capito allora che stava succedendo qualcosa di “altro”. Ora mi chiedo: internet ha ucciso le video star? Mi sa proprio di no! Semmai sta accadendo il contrario».
Per adesso però Taylor Swift è stata l’unica a opporsi alle condizioni imposte sullo streaming da un colosso come Apple Music. Secondo la pop star statunitense la musica è arte e non dovrebbe essere gratuita, anzi dovrebbero essere artisti e produttori a stabilire il prezzo dei loro dischi.
«Già, ma chi stabilisce il valore della musica? Basta dare un’occhiata su eBay per capire che tutto è molto soggettivo. Ad esempio io che sono un collezionista di sigle televisive sarei disposto a pagare non so cosa per le musichette di un cartone animato della tv kazaka. Il valore di una cosa dipende da chi glielo dà. Se dovessimo usare altri parametri, per esempio il valore estetico, la complessità, l’impegno, quanto dovrebbe costare un disco di Beethoven? »
Fra i nuovi esempi di economia condivisa, sulla rete sta andando forte il crowdfunding. Molti artisti, non soltanto le nuove leve, hanno utilizzato questo tipo di piattaforme per finanziare i propri progetti discografici. Ad esempio Gianni Maroccolo, bassista di Litfiba e CSI, attraverso Music Riser ha raccolto più di 80 mila euro con cui ha portato a termine diversi progetti.
«Mi auguro che funzioni, ma confesso che il termine “sharing economy” mi dà i brividi sulla pelle».
L’errore che molti fanno, sostiene l’esperto di economia della rete Giorgos Kallis, è chiamare “sharing economy” tutta una serie di attività che solo apparentemente hanno la condivisione come tratto comune: nella maggior parte dei casi si tratta di “rental economy”, un’economia basata sull’affitto di beni e servizi attraverso piattaforme tecnologiche e commerciali che generano profitti grazie alle interazioni “peer to peer”.
«Certo, affittare non è condividere! Ciò nonostante, tempo fa, ho partecipato anch’io al crowdfunding per un giovane artista pugliese, Antonello Papagni, che a mio avviso meritava di avere un’opportunità».
Ha funzionato?
«Piuttosto bene sembra… Per un debuttante, anche se di talento, non è mai facile. Si possono anche raccogliere cifre importanti, ma poi bisognerebbe educare il pubblico a sostenere certi progetti anche dopo. Magari comprando i dischi e andando ai concerti. Frequento assiduamente i concerti, anche quelli di band emergenti. Ho notato come gran parte dei giovani artisti consentano di scaricare gratuitamente i loro cd dal proprio sito. Solo in questo modo, dicono, si riesce a stabilire effettivamente quanta gente ti segue. Perfino band come i Radiohead e gli U2 hanno battuto questa strada. E non si tratta certo di gente che ha bisogno di farsi conoscere. Una volta i concerti servivano a vendere i dischi, adesso i dischi sono diventati come i gadget, si regalano in rete sperando che il pubblico poi venga a sentirti dal vivo».
Il punto sembra proprio questo. Alla fine anche per le rockstar sono i concerti che garantiscono i veri guadagni. Visti i tempi che corrono, questa si potrebbe considerare la più alta forma di sostegno solidale da parte del pubblico nei confronti dell’artista.
«Non basta cliccare “mi piace” o “condivido” sulla pagina di facebook; ai concerti bisogna andarci per partecipare a un rito collettivo che non ha niente di virtuale, per fortuna! Sono stato a sentire gli AC/DC a Imola: c’erano più di centomila orfani del rock di tutte le età. È stato emozionante. Ricordo che quando Angus Young, Brian Johnson e gli altri hanno cominciato, internet e i social network non esistevano. Sono mostri sacri nati in un’epoca in cui semplicemente dovevi suonare e andare sul palco a dimostrare quanto valevi. È possibile che oggi la strada maestra sia ancora quella. Azzardo una previsione: presto morirà anche lo streaming in favore di qualcos’altro e sarà qualcosa di primordiale, si ricomincerà dal passa parola!».