Un continente unito da Wagner e Verdi. Che all’arte preferisce nazionalismi e denaro. Il grande direttore rientra alla Scala. Ecco le sue idee e provocazioni

Daniel Barenboim
Alla Scala c’è sempre un tempo per il ritorno, cerimoniosa metafora della resurrezione cattolica. Avvenne per Claudio Abbado dopo 26 anni di assenza, così è parzialmente accaduto a Riccardo Muti a 11 anni dal suo addio, con la mostra dedicatagli al Museo teatrale. E il 7 novembre sarà il turno di Daniel Barenboim che, dopo aver lasciato due anni fa la direzione musicale dell’ente scaligero a Riccardo Chailly, inaugurerà la nuova stagione sinfonica della Filarmonica.

La trentacinquesima, da quando Abbado ebbe, insieme ai musicisti scaligeri, l’idea di sviluppare in maniera organizzata e permanente il repertorio sinfonico nel contesto della tradizione operistica del teatro. Tale ritorno avverrà nel nome della Settima sinfonia di Anton Bruckner, un suo cavallo di battaglia, e del Primo concerto per pianoforte di Beethoven, con Martha Argerich solista. Nei giorni successivi Barenboim, come pianista, si esibirà al San Carlo di Napoli e a Santa Cecilia a Roma.

Per il settantaquattrenne direttore d’orchestra argentino-israeliano è una lieta circostanza. La commenta per la prima volta con l’Espresso: «Ho tanti piacevoli ricordi. Alcuni legati a importanti messe in scena come il “Tristano” di Wagner con la regia di Patrice Chéreau o “Il giocatore” di Prokofiev con quella di Dmitri Tcherniakov. Ma in generale rammento con piacere il mio lavoro di dieci anni con l’orchestra. Riuscimmo a svolgere un’intensa e proficua attività senza il minimo conflitto e divertendoci, cosa che non è sempre scontata in questo mestiere e con altri ensemble nel resto del mondo».

In particolare Barenboim si fa vanto delle sue interpretazioni della “Messa da Requiem” di Giuseppe Verdi. «Non lo dico per spocchia, ma ci tengo a sottolineare che in quegli anni ho potuto sviluppare un’enorme confidenza e un notevole approfondimento nei confronti di questo capolavoro, con la stessa orchestra e lo stesso coro, variando solamente i solisti di canto. Ci sono certi pezzi che sono caratteristici, quasi proprietà, di precise orchestre, istituzioni e tradizioni. A esempio i valzer nel Concerto di Capodanno per i Wiener Philharmoniker, o alcune sinfonie di Bruckner per la Staatskapelle o i Filarmonici di Berlino. Simile esclusività esiste fra la “Messa da requiem” di Verdi e la Scala».

Un Verdi diretto da Barenboim, e con plauso della critica. Da una bacchetta non italiana, dunque. L’osservazione maliziosa fa tornare in mente al maestro alcune polemiche che infiammarono la quotidianità al tempo del suo incarico milanese. A Barenboim, interprete di riferimento per la musica di Beethoven o Wagner, veniva infatti rimproverato di non trovarsi a suo agio nell’affrontare l’opera italiana. Il maestro allora come ora ha le idee molto chiare sull’argomento: «L’italianità è un concetto molto più complesso di quel che di solito si intende. Cos’è l’italianità? È Dante, Boccaccio, Pirandello, Verdi o Rossini? Cinque universi diversi. Hanno qualche cosa in comune? Sì. Ma questo a mio modo di vedere è molto meno interessante di ciò che li differenzia. E la teutonicità nella musica cos’è? È Brahms, Wagner, Beethoven o Schumann? Brahms e Wagner artisticamente parlando, oltre che umanamente, erano quasi nemici, a livello stilistico andavano in due direzioni diverse. Quando si parla dell’italianità, da voi, a volte si rasenta la superficialità. Verdi è molto più grande di questo concetto. Nel suo studio aveva le partiture dei Quartetti di Beethoven. Solo dopo averle assimilate osò scrivere il suo quartetto».

Eppure Barenboim conviene che ci sono elementi nazionalistici di tipo culturale. «Il problema comincia quando questo nazionalismo culturale diventa politico. Quando i tedeschi dicono: “Per comprendere la musica tedesca bisogna capire questo elemento teutonico intrinseco”, hanno ragione. Ma quando negli anni Trenta alcuni di loro affermavano: “Soltanto un tedesco può capire questa musica”, scadevamo nel più volgare dei fascismi».

La grande musica, insomma, deve uscire fuori dai ristretti confini, soprattutto intellettuali, di una nazione. Il non riconoscerlo a livello locale sottende, secondo Barenboim, una delle grandi “quaestiones” riguardanti l’essenza stessa del concetto d’Europa. «Perché l’Unione europea ha tanti problemi? Per tante ragioni che conosciamo tutti: la crisi del Medio Oriente, quella economica e via discorrendo», riflette. «Ma l’Unione europea non è stata creata solo per essere un’unione monetaria o politica. Si capisce adesso, retrospettivamente parlando, che è stato uno sbaglio non aver messo fin dall’inizio un accento speciale sull’educazione generale della cultura nei diversi paesi della Ue. Perché se c’è qualche cosa che il continente europeo ha e nessun altro in tale grado di quantità e di qualità, è proprio la cultura». Per Barenboim, insomma, la crisi dell’Europa va letta anche con la mancata diffusione di un concetto di cultura “allargato”, che escluda particolarismi disgregatori, nocivi quanto e forse più di quelli d’origine economica.

Altri problemi, nelle passate stagioni scaligere, derivavano, secondo il sovrintendente di allora Stéphane Lissner, dal diverso livello culturale di preparazione dello spettatore italiano medio rispetto a quello dei paesi anglosassoni per quanto riguardava la possibilità di assimilare alcune innovative regie d’opera. «Sull’argomento vorrei fare una riflessione storica», spiega Barenboim. «Fino agli anni Venti del secolo scorso in tutti i teatri d’opera europei la regia praticamente non esisteva. Era un arrangiamento scenico e basta. Fu allora la Kroll Oper di Berlino, sotto la direzione musicale di Otto Klemperer, la prima istituzione culturale a sperimentarla. Ma il resto della Germania rimase d’indirizzo conservatore e il festival wagneriano di Bayreuth non sfuggiva alla regola. Finché alla sua direzione artistica non arrivò Wieland Wagner, che fece una rivoluzione, scoprendo la possibilità di fare allestimenti non naturalistici, indirizzati verso una decisa astrazione e un simbolismo che riportarono la musica in primo piano. Questo influì molto sulle linee di tendenza generali. In seguito, come avviene per tutte le cose nuove, ci furono delle conseguenze positive e altre negative. In Germania in particolare si giunse a delle esagerazioni ridicole, soprattutto da parte di registi che non avevano né la cultura né l’intelligenza di capire la musica. Ebbene, io considero che nei teatri lirici italiani un cambiamento di tal fatta non ha mai avuto esteso fondamento. Quali sono stati i grandi innovatori della regia d’opera nel vostro paese fino a metà degli anni Sessanta? Soltanto Luchino Visconti, che ha fatto poche cose, e Giorgio Strehler. Per questo Lissner ha trovato difficoltà a concretizzare in successi alcuni suoi progetti. Devo però sottolineare che il pubblico scaligero si è dimostrato più ben disposto a un rinnovamento di repertorio che riguardava la musica strumentale. A esempio, ho prodotto un ciclo dedicato a Schönberg, avvicinandolo a composizioni di Beethoven, che ha registrato lusinghieri e generalizzati apprezzamenti».

I rapporti fra il maestro Barenboim e l’Italia risalgono agli anni Cinquanta. Nel 1956 prendeva parte ai corsi per direzione d’orchestra dell’Accademia chigiana di Siena, «ma ho suonato il primo concerto in Italia, a Roma, nel dicembre del 1952», ricorda. «È stato molto importante per me. L’ho tenuto all’Accademia Filarmonica romana, diretta allora dalla leggendaria signora Adriana Panni. Lì fra l’altro ho conosciuto Igor Stravinskij, un incontro fra i più decisivi della mia carriera. E poi ho suonato un po’ dappertutto: a Bari, Padova, Perugia, in Sicilia».

Con le sue raffinate “antenne musicali”, come è cambiata la situazione musicale italiana rispetto ad allora? «In Italia c’erano due livelli », risponde Barenboim. «Il primo era quello lirico con naturalmente la Scala, ma anche l’Opera di Roma, in primo piano. Il secondo, quello della musica strumentale, era animato da iniziative che parevano d’ispirazione elitaria, con l’aiuto dei privati. Ricordo a esempio la signora Alba Buitoni, a Perugia, che organizzava con grande coinvolgimento i suoi bellissimi concerti. E il conte Guido Chigi Saracini a Siena, Roman Vlad a Roma, Massimo Bogianckino a Firenze e Spoleto. Insomma, la maggioranza degli appuntamenti si svolgeva grazie ad alcune personalità brillanti e intraprendenti. Ma non c’era una vera e propria vita al di fuori della lirica. Ai giorni nostri da questo punto di vista le cose in Italia sono migliorate: penso a certi programmi scaligeri, a quello che fa il mio amico Antonio Pappano a Roma. In questo senso la creazione dell’Orchestra Filarmonica della Scala da parte di Abbado fu di grande rilevanza».

Parlando con Barenboim, l’interlocutore si accorge di come egli non veda la musica solo come una combinazione di note. Per lui, come per Mahler, una grande sinfonia è anche una concezione del mondo. Il suo filtro intellettuale irresistibilmente riporta tutti gli aspetti del reale alla possibilità di un’educazione musicale non effimera. Perché, secondo lui, da questa arte si può apprendere un’incredibile quantità di cose utili per la vita. E una fuga di Bach può far comprendere la realtà storica come un gesto o un libro: «L’educazione all’ascolto è molto più importante di quello che possiamo immaginare, non solo per lo sviluppo di ogni individuo, ma anche per il funzionamento della società nel suo complesso. Il talento musicale e l’intelligenza uditiva sono aree spesso separate dal resto della vita umana, confinate nella funzione di intrattenimento o nel regno esoterico dell’arte d’élite. L’abilità di ascoltare diverse voci insieme cogliendo l’esposizione di ciascuna di esse separatamente, la capacità di ricordare un tema che fece la sua prima comparsa per poi seguire un lungo processo di trasformazione, e che ora ricompare in una luce differente, e infine la competenza uditiva necessaria per riconoscere le variazioni geometriche del soggetto di una fuga, sono tutte qualità che accrescono la comprensione». Persino quella fra i popoli.

Da qui al concetto di impegno civile teorizzato in libri e interventi pubblici con Edward Said, il famoso intellettuale palestinese scomparso nel 2003, il passo è breve. Una delle loro tesi portanti è che in una società democratica l’intellettuale deve separarsi dalla politica, dal potere, per criticarlo e cambiare la realtà. Anche oggi, secondo Barenboim «c’è bisogno di una generazione di intellettuali focalizzati sulla cosa comune, slegati dalle logiche dei poteri, al fine di promuovere una cultura dell’etica e della conoscenza. Consideri il conflitto fra Israele e Palestina. Come si può immaginare dopo cinquanta anni di occupazione un futuro nel quale possano vivere insieme o accanto israeliani e palestinesi, quando l’unica conoscenza che hanno questi ultimi di Israele sono i soldati e i carri armati? Da fuori non verrà la soluzione: gli americani hanno altre cose da fare, in giro per il mondo. E la Germania non potrà a causa della coscienza dell’olocausto. Si dovrebbe creare un gruppo, un forum di intellettuali israeliani e palestinesi che abbiano l’esperienza della diaspora, come l’aveva Said».

E magari seguire l’esempio di Papa Francesco. «È andato in Terra santa e ha detto a Ramallah delle cose che non sono piaciute ai palestinesi. Altrettanto ha fatto a Tel Aviv con gli israeliani. Poi ha invitato il presidente israeliano dell’epoca, Shimon Peres, e quello dell’autorità palestinese Abu Mazen in Vaticano. Sapendo molto bene che né l’uno ne l’altro vi andavano per pregare. Secondo me ha voluto dire che tutto quello che è stato fatto in questi decenni è servito a molto poco. Adesso dobbiamo cercare un altro modo per risolvere i problemi in Medio Oriente. Sono un grande ammiratore di Papa Francesco, il suo impegno etico mi convince».

Barenboim non teme l’accusa di velleitarismo intellettuale. Che sia rimasto condizionato dalla sua copia dell’“Etica” di Spinoza, il filosofo preferito, che, ormai sgualcita da tempo, l’ha seguito per i tour concertistici mondiali? Non sembra: «Il grande Voltaire una volta accusò gli scritti di Spinoza di abuso di metafisica. Oggi però l’assoluto metafisico è più importante che mai. Pensare in maniera metafisica significa, in senso etimologico, andare al di là del materiale, del tangibile e del letterale, per comprendere sia l’essenza di un soggetto, sia la sua relazione con tutti gli altri soggetti, che si tratti di una persona o di un governo, di una voce in una fuga di Bach o di un fatto storico. Il pensiero liberato, in realtà, è un valore importante in un’epoca in cui i sistemi politici, i vincoli sociali, i codici morali e la “political correctness” spesso condizionano il modo di ragionare».

Un atteggiamento serioso, che non completa le sfaccettature della personalità di Barenboim. Al termine dell’intervista, arrivati al momento dei saluti, si avvicina con espressione complice: «Le devo confessare il mio totale amore per l’Italia. Io sono nato in Argentina, ma quando ho voglia di scherzare dico: “L’Argentina è l’unico paese dell’Italia dove non si parla italiano”. Sono stato pure molto bene a Chicago, durante i trentasette anni che vi ho trascorso, diciassette dei quali come direttore musicale. Ero assolutamente sbalordito dalla qualità dell’orchestra e raggiungevo grandi soddisfazioni professionali. Ma fuori dalle prove e dai concerti era un altro paio di maniche. A Milano sono stato molto felice anche quando mi allontanavo dalla Scala. La gente si veste come a Buenos Aires e, ciò che è più importante, “gode” in maniera simile. Il godere è una cosa che non è data a tutti i popoli. Per noi latini è un valore assoluto. È l’equivalente del risparmio per i tedeschi. Ricordo molto bene una signora assai fiera del suo bambino: gli dava all’epoca cinque marchi alla settimana. E quando, arrivato il venerdì, lui le faceva notare che gliene erano rimasti ancora due, lei toccava il cielo con un dito. Invece i miei bambini il lunedì o il martedì avevano già speso tutto in gelati o giochini. Insomma, quando ero a Milano sentivo che tutta la gente, di qualsiasi classe sociale o opinione politica fosse, aveva questa volontà di godersela. Un elemento molto importante». Spinoza sarebbe stato d’accordo.

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